Recensione “America Latina”: un pezzo di vita o una fetta di torta?

Arriva nelle sale italiane, dopo esser stato presentato alla 78 ͣ Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia , il terzo film dei fratelli D’Innocenzo, America Latina. Diventati un vero e proprio fenomeno nel panorama del cinema italiano, tanto da rappresentare per molti una nuova e stimolante generazione di personalità autoriali, si misurano qui con una pellicola che rappresenta ad ora il momento della loro maturazione registica, e che, allo stesso tempo, raggiunge nel contenuto un punto di incontro (quasi una sintesi) tra La terra dell’abbastanza e Favolacce, rispettivamente riproponendosi come un racconto più universale, dispiegandosi proprio in una dimensione individuale presa a modello, e mantenendo un carattere nero e disperato, quasi gotico.

Il film muove le proprie mosse partendo dalla tradizione del thriller, tra Polanski e Hitchcock, una caduta spontanea e incontrollata nel delirio e una cantina che nasconde quanto necessario a squarciare il cielo di carta. Tutto rappresenta lo stato della mente del protagonista, dalla casa, architettonicamente improbabile, priva di scale interne che colleghino i due piani e con un’unica scala esterna che conduce all’ingresso come un vialetto sospeso in aria, fino alla regia: la macchina da presa rimane ossessivamente attaccata a Elio Germano, comprimendone e deformandone il cranio nell’inquadratura, cercando di scrutare qualcosa nelle sue crepe e, allo stesso tempo, nascondendo lo spazio intorno a lui.

Proprio quest’ultimo elemento, personaggio attivo eletto quasi a carnefice, viene rivelato in immagini che identificano l’ambientazione come Latina pur non collocando la storia in uno spazio ben definito: è la generica periferia di una periferia, un luogo che è tanti luoghi e quindi reale, che è Latina e non America e che non ha niente da concedere a chi vi abita.

Impera la desolazione, in una terra arida in cui le persone si limitano ad esistere senza trovare mai un contatto tra di loro, galleggiando distanti l’una dall’altra. I pensieri e le parole pronunciate da Elio Germano gli tornano indietro intatte, come se rimbombassero in una stanza vuota (quando pone delle domande per capire la situazione, l’interlocutore gli risponde con ulteriori domande, o risposte secche pronunciate sotto sforzo): la comunicazione è scandita da dialoghi vuoti quando i personaggi comunicano, altrimenti il silenzio.

Ne risulta un uomo patetico, abbandonato a se stesso e drammaticamente piegato dalla solitudine, che piange dopo aver cercato un confronto con il padre (l’unico confronto possibile, e proprio per questo spietato, onesto e rivelatore) o mentre si rintana nell’amore incondizionato delle donne che lo circondano, la moglie e le figlie, simili alle tre grazie: provocatoriamente distante dalla classica icona del maschio, perfettamente in linea con gli uomini dei D’Innocenzo, spesso traditi dalle proprie lacrime.

L’emblema di ciò che non funziona in America Latina, tuttavia, viene perfettamente incarnato dal finale, in un voice-over che rappresenta una “correzione” rispetto alla versione presentata a Venezia: rende il significato della storia troppo dichiarato e, così facendo, rischia di banalizzarlo, in un film che portava avanti la propria narrazione per immagini e che in chiusura non le ritiene più sufficienti.

Vi è indubbiamente riconoscibile una consapevole e precisa volontà dei registi, che preferiscono eliminare una possibile polisemia e concentrare piuttosto l’attenzione interamente sul senso ultimo del loro lavoro: i D’Innocenzo decidono di dirigere anche ciò che sta oltre i titoli di coda, di intervenire direttamente su quanto segue la chiusura della pellicola, ovvero la discussione, peccando tuttavia nel comunicare troppo esplicitamente la direzione del racconto, già facilmente intuibile, in un film che parla, tra le altre cose, proprio del dramma della mancanza della comunicazione. Se non fosse fuori luogo, sarebbe notevolmente appropriato.

Il didascalismo della pellicola non si riduce tuttavia al finale, bensì ha radici più profonde che si spingono fino alla base: America Latina non è interessante in quanto thriller. La scelta del cinema di genere non serve in alcun modo a sostenere ciò di cui parla l’opera, non lo arricchisce, è solo accessorio e, considerata anche l’estrema prevedibilità dello schema narrativo, lo rende scontato anziché conferirgli maggiore potenza espressiva.

Il disagio umano è realmente desolante e disturbante quando la narrazione esula dal thriller, perché non viene mascherato e perché non c’è bisogno di mascherarlo. Non è sbagliato di per sé il genere, ma deve essere giustificato e funzionale alla narrazione, e in questo caso sembra prestarsi più di tutto ad un esercizio di stile, mentre, purtroppo, il film ne esce poco omogeneo.

L’ultimo lavoro dei fratelli D’Innocenzo si propone come una spietata riflessione sulla solitudine e i suoi effetti catastrofici, ma filtra il proprio contenuto più di quanto non fosse necessario e lo edulcora più di quanto non fosse l’intenzione. In termini hitchcockiani, a differenza dei precedenti film dei due registi, tra il pezzo di vita e la fetta di torta, America Latina è più la fetta di torta.

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