
Beau ha paura è un film folle. Ari Aster non scende a compromessi. Tutto vero, ma ciò di cui merita discutere è se queste due premesse vadano automaticamente a favore di un film, perché l’ultimo lavoro del regista di Hereditary e Midsommar mette alla prova l’accomodante e approssimativo concetto di autorialità che sembra essersi ormai affermato in tempi recenti: un film, per essere autoriale, deve sconsideratamente perdere il senso della misura? Perché se è vero che Beau ha paura è un film folle, e se è vero che Ari Aster non scende a compromessi, merita fare qualche passo in più: Beau ha paura è delirante e Ari Aster, al contrario di quanto suggerito da Midsommar, non ha ancora preso le misure delle proprie esigenze narrative e di come gestirle rispetto al mezzo cinema.
Molto rumore per nulla
Nato riprendendo un cortometraggio dello stesso Aster, l’ultimo film prodotto dalla A24 sembra effettivamente un insieme di tanti cortometraggi: costruita per compartimenti stagni, fin da subito la pellicola è sovraccarica di elementi e ogni atto si costruisce su suggestioni del tutto autoriferite, in alcun modo propedeutiche alla morale già di per sé misera su cui si chiude la storia. L’epopea di Beau si articola tra situazioni autonome, quasi prive di consequenzialità e incapaci di dare forma ad un percorso organico, se non per un filo tematico fin troppo blando. Si potrebbero mantenere il primo e l’ultimo atto, rimuovendo quanto accade nel mezzo, e sarebbero comunque due atti di troppo per le conclusioni che ne trae Aster.
Quello di Beau è un viaggio attraverso il senso di colpa scatenato da un lutto (punto di partenza di tutti i film del regista), al termine del quale si giunge alla più catartica realizzazione per un figlio: anche l’amore di una madre può essere mostruoso e l’unico modo di sopravvivergli, diventando un essere autonomo che sia qualcosa di più di un figlio, è riconoscere il proprio diritto e dovere di emanciparsi da quell’amore.
Se asciugato di tutti i suoi gratuiti eccessi, Beau ha paura poteva essere un film interessante, ma la nostra realtà è un’altra: questo è tutto ciò che Ari Aster ha da dire e per dirlo ha bisogno di tre ore. Tre ore che si reggono su elementi grotteschi e sequenze oniriche che si inseguono ossessivamente, assicurandosi di imporre allo spettatore un disagio che, proprio in virtù della sua sovrabbondanza, la pellicola non è in grado di restituire.

Il grande caos di Beau ha paura
Fa piacere che Aster abbia scoperto che una storia può essere raccontata anche in maniera non convenzionale, spezzando la linearità degli eventi e invalidando la rappresentazione oggettiva degli elementi e dei rapporti portati in scena. Servirebbe però un equilibrio sulla cui base le suggestioni proposte possano alimentarsi consequenzialmente, altrimenti viene meno un percorso tematico tale da reggere una narrazione organica. Non è di alcun interesse che ogni sequenza sia piena di simboli e che ogni significato ne nasconda un altro, se per raccontare una parabola così semplicistica servono tre ore, durante le quali non vengono rivelati ulteriori livelli di profondità. È chiaro che il mondo in cui ha luogo il viaggio di Beau è un teatro deformato dalle sue paranoie, ma ciò non basta a giustificare da sé la grande confusione che regna sovrana: anche per rappresentare la follia serve criterio.
Si gioca con le immagini, saturandole e saturandone il film, con la convinzione di accumulare quanti più stimoli possibili. Ma se per raccontare un rapporto traumatico tra madre e figlio c’è bisogno di mettere a schermo un fallo gigante e putrescente rinchiuso in una soffitta, insieme ad altre stranezze sparse gratuitamente per tutta la durata della pellicola, forse le conclusioni da trarne sono altre: che la fiducia nelle immagini è ben poca, visto che bisogna scendere a didascalismi così goffi, e che anche di stimoli da offrire ce ne sono ben pochi, così come sono poche le idee su come offrirli.
I gratuiti eccessi cui si piega il film non sono automaticamente legittimati dalla presunta autorialità delle intenzioni del regista, specialmente quando tale autorialità ritiene necessario ridursi ad un ultimo atto inverosimilmente retorico e didascalico, in barba all’acclamato rifiuto dei fantomatici “compromessi”.

Un importante passo indietro per Ari Aster
Beau ha paura non ha alcuna traccia della maturità intravista in Midsommar. Si preoccupa tanto di ribadire ad ogni occasione quanto sia grottesco, ma la cosa più grottesca è che un regista promettente come Aster arrivi a partorire con tale convinzione un film simile come suo terzo progetto: un film prolisso, ridondante, gratuito quando in realtà si crede acuto, inconcludente e, più di ogni altra cosa, bulimico.
Abbandona con presunzione il senso della misura e non c’è niente di buono in questo, non necessariamente. Non è folle, è sconsiderato e, in tal senso, Beau ha paura non è tanto diverso da Babylon, da Everything Everywhere All at Once, da Bardo o perfino dalla Zack Snyder’s Justice League. Un autore non si afferma solo con i simbolismi, le provocazioni e “rifiutando i compromessi”, serve ben altro. Non c’è niente di autoriale in Beau ha paura, solo tanta immaturità.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.