Black Phone: il ritorno di Scott Derrickson all’Horror

Com’è essere lo Stephen King del discount?” chiedeva Bruce Dern a Val Kilmer in Twix (ultimo film di Coppola da riscoprire) ed è una domanda che poteva essere posta anche all’Ethan Hawke di Sinister. Come in Sinister abbiamo incursioni di fantasmi di bambini scomparsi nella violenza e dimenticati, tornano i finti filmati di repertorio per le sequenze oniriche, e così anche Black Phone sembra un film tratto da King, ma non Stephen: l’autore del racconto di riferimento è Joe Hill, figlio d’arte del celebre scrittore, che opera sul solco del padre, seguendo le sue orme e riproponendone gli schemi. E probabilmente, dati gli ultimi anni di adattamenti dei lavori dello scrittore del Maine, il miglior film possibile tratto da un suo libro, sembra poter essere ormai solo un film tratto non da un suo libro.

Nel mentre, Scott Derrickson, dopo aver regalato un’ottima prova registica al Marvel Cinematic Universe con Doctor Strange,  torna al genere horror, genere che lo ha lanciato con Hellraiser: Inferno (produzione televisiva ma da rivalutare, uno dei migliori sequel del film di Clive Barker, in cui azzarda una variazione sul tema), e gli ha permesso di affermarsi con il sopravvalutato, ma per molti cult, The exorcism of Emily Rose e poi con il celebre Sinister. Derrickson non è necessariamente una garanzia, ma sicuramente un mestierante con un ottima mano registica che fa piacere seguire, e per Balck Phone era lecito provare della curiosità. Curiosità che viene ripagata in parte.

La pellicola risente innanzitutto di essere l’adattamento non di un romanzo bensì di un racconto, quindi tutti i passaggi più veloci che nell’opera di partenza erano fisiologici, in un film di un’ora e quaranta minuti lasciano a desiderare. Manca di inquietudine in momenti in cui sarebbe lecito aspettarsela, colpa di una messinscena talvolta sbrigativa e ripetitiva (vedasi le scene di rapimento) o, quantomeno, che non osa abbastanza, non si concede a particolari guizzi, pur essendo un film ben diretto.

Ciò non significa che manchi la tensione, ma non è Sinister: non c’è immedesimazione nel panico del protagonista e della comunità, perché il panico viene a malapena mostrato, e il giovane Finney Shaw non perde tempo a mettersi all’opera per la propria fuga. In un certo senso, è un film molto pragmatico nelle priorità narrative che si pone.

Un plauso va invece a Ethan Hawke, il cui Rapace è il vero cuore pulsante del film, il vero elemento di inquietudine: un mostro non necessariamente iconico, né tantomeno onnipresente, lavora piuttosto di sottrazione e tutto ciò che lo riguarda è solo suggerito, lasciando una genuina curiosità morbosa che non sarà soddisfatta. È solo una delle cicatrici incancrenite di una comunità adagiata nella cattiveria, in una quotidianità scandita unicamente dal passaggio di un furgone nero per le strade silenziose e sorde della cittadina.

Black Phone merita: è un film dell’orrore godibile, ben diretto e che intrattiene, partorito da un regista che dà conferme del proprio talento. Semplicemente è un po’ sottotono, pur essendo probabilmente il miglior film di Derrickson dai tempi di Sinister: la trama procede troppo spedita e non si concede abbastanza momenti per riflettere sull’orrore, ad eccezione dell’introduzione. In altre parole, sembra di leggere un racconto alla Stephen King, ma, per quanto siano gradevoli le sensazioni, il racconto poteva adattarsi meglio alla forma filmica.

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