
Per quanto la creazione di Clive Barker, trasposta a schermo da Bernard Rose, avesse riscosso un buon successo, regalando a Tony Todd il ruolo della carriera e proponendo un nuovo mostro cinematografico che fosse atipico nell’incarnare una riflessione antirazziale, è sempre stato poco più di un piccolo film di culto, tanto che i timidi tentativi di aprirne una saga cinematografica si sono esauriti con il terzo film, uscito nel 1999.
A conferire nuovamente la dovuta notorietà ad una creatura così intrigante è Nia DaCosta, accompagnata alla sceneggiatura da Jordan Peele. Dei due, il nome che stimola maggiore interesse è sicuramente il secondo ed è difficile da ignorare, dal momento che Candyman segna il suo terzo approccio al genere horror.
Il risultato è un quarto capitolo che si pone come seguito diretto del film originale di Bernard Rose, reinventando il mito di Candyman in funzione di una contemporaneità che ha visto il dibattito connesso evolversi in tempi recenti. Il film si inserisce in un panorama sociale violentemente investito dal movimento Black Lives Matter ed inevitabilmente il senso della stessa creatura di Barker è cambiato di pari passo, rispondendo ad eventi più recenti.
A differenza di Bernard Rose, il quale riprendeva il ghetto dall’alto, Nia DaCosta procede nel senso opposto, riprendendo il quartiere nuovo dal basso. E se il protagonista Yahya Abdul-Mateen si ritrova ad essere il punto di incontro dei due quartieri, delle due realtà, dei due sentimenti, Candyman nel 2021 è al contrario la reazione necessaria di una comunità cresciuta nel dolore: è un quartiere sporcato ripetutamente nello stesso punto, fino a marcire, che reagisce a degli eventi che continuano a ripetersi. È una sofferenza eterna.

La giovane regista fa un lavoro più che pregevole e dimostra una mano consapevole, particolarmente ispirata e che, soprattutto, non fa rimpiangere in alcun modo quella di Jordan Peele, di cui si sente la presenza alla sceneggiatura seppur non in modo ingombrante. Dall’altra parte, il contributo di Peele è stavolta ben più criticabile, con quella che probabilmente è la sua sceneggiatura meno solida, quando già Us soffriva sul finale di importanti incoerenze narrative, per quanto in funzione di una brillante rilettura del doppleganger in chiave romeriana.
La discesa nel delirio del protagonista subisce un’accelerata arrivati al giro di boa e se da un lato si cerca di conferire una caratterizzazione più incisiva ai comprimari, facendo riferimento ad eventi di un passato non meglio definito, dall’altro non riescono ad andare oltre la loro mera funzionalità alla trama, chi come carne da macello e chi come poco di più. In particolare, la maggior parte delle scene di uccisioni sono pretestuose se non proprio immotivate, non avendo nulla a che fare con l’azione principale e quindi risultando inserite unicamente per contribuire al minutaggio e aggiungere del sangue al film, quando non è l’orrore grafico a spaventare, quanto invece la nuova logica incarnata da Candyman.
Si tratta di superficialità dell’intreccio che possono essere trascurabili, quasi da contratto in un qualsiasi altro film, ma che saltano maggiormente all’occhio se considerato il nome alla sceneggiatura. Sono in definitiva dei limiti molto relativi che no meritano di essere considerati come campanelli d’allarme, e il risultato finale può vantare molti elementi di interesse e punti di forza: fa sicuramente ben sperare per la carriera in divenire di Nia DaCosta e l’impegno sociale della pellicola, se pur a tratti tendente alla retorica ed espresso in maniera didascalica, si concretizza in un’attualizzazione sicuramente accattivante del mito di Candyman, il quale nel 2021 esprime un orrore che dal 1992 non ha mancato di maturare.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.