
“Uno spettro si aggira per l’Europa” scrivevano Marx ed Engels in apertura del Manifesto del Partito Comunista. Nel libro di DeLillo e poi nel film di Cronenberg, una limousine si aggira per New York: una città che è il mondo e un passeggero che è uno spettro. Lo spettro è Eric Packer, un giovane miliardario abbastanza cinico da essersi guadagnato un posto in cima al mondo, ma anche da cadere rovinosamente nel giro di una giornata non diversa da molte altre, se non per il fatto che si presenta un elemento che era stato a lungo ignorato.
È di fatto una caduta di Icaro, come viene puntualizzato proprio negli ultimi minuti da un Paul Giamatti in una delle sue migliori interpretazioni, ma si tratta anche di un viaggio alla Cuore di tenebra, attraverso un mondo ormai al punto di rottura: una città immersa nel caos e nel rumore che sul finale lascia Eric da solo, partendo dai grattacieli di Wall Street fino ai bassifondi di Hell’s Kitchen, nello sporco e nel silenzio, un silenzio che non è più quello confortante garantito dall’isolamento acustico della sua limousine. In un mondo marcescente e silenzioso, Eric andrà incontro al suo Kurtz, che in questo caso è un uomo piccolo, triste, mediocre, normale. Tutto questo per un taglio di capelli, perché Robert Pattinson interpreta fondamentalmente un bambino capriccioso, che insiste per continuare a soddisfare una vecchia abitudine, che riduce a piccole banalità la realtà intorno a lui, che piange per la morte di un cantante e che si spaventa per delle imperfezioni del proprio corpo.
Nel 2013 quindi Cronenberg torna a parlare della società attraverso il racconto del corpo. Oltre all’insistente ricerca di rapporti sessuali attraverso la città, è costante il sospetto e l’angoscia di un corpo in decadimento, che sia suggerito da un neo o da una prostata asimmetrica: dettagli irrilevanti, che non significano niente, a cui occorre dare il tempo di esprimersi, ma che evidenziano il timore per l’irregolarità, per l’asimmetria e per ciò che è sbilanciato. Ed è proprio l’importanza di questi fattori ad essere stata ignorata e dimenticata da un mondo che si sorregge su freddi calcoli e previsioni razionali, finché non sarà proprio la variabilità umana a far crollare un castello di carte.

Sono passati nove anni da Cosmopolis, il penultimo film di David Cronenberg, il quale, dopo aver diretto nel 2014 Maps to the Stars, ci lascia ad un periodo di inattività ormai di sette anni, il più lungo della sua carriera. È forse il film più interessante del regista canadese nella sua produzione degli anni duemila, pur dovendo in tal senso confrontarsi con film di alto livello come Spider, La promessa dell’assassino e il già citato A history of Violence.
Parte del merito è sicuramente da attribuire all’opera di riferimento, l’omonimo romanzo di Don DeLillo. Eccezion fatta per pochi significativi cambiamenti, il testo viene tradotto in forma filmica fedelmente, in particolar modo nei dialoghi, un elemento che sicuramente contribuisce a conferire fascino alla pellicola ma che può suscitare delle perplessità: si accusa indubbiamente una certa verbosità, oltre al fatto che gli scambi di battute sembrano innaturali, meccanici, facendo pensare che siano effettivamente più funzionali nella loro forma scritta. Al contempo però, la stessa artificiosità e il manierismo che si possono recriminare alla sceneggiatura contribuiscono a evidenziare e costruire i toni siderali e grotteschi distintivi della produzione di Cronenberg, come se non vi fosse regista più adatto a interpretare lo spirito del romanzo (o viceversa).
La storia è ambientata quasi nella sua interezza all’interno della limousine, ma non sono visibili segni di difficoltà nel girare in uno spazio così angusto. La cinepresa riesce al contrario a muoversi negli interni del veicolo in maniera naturale, rendendo evidente come si tratti di una dimensione distinta e distante dal mondo esterno: parliamo in un certo senso di un non-luogo, un’estensione della psiche del protagonista (similmente a quanto visto lo stesso anno, sempre in concorso a Cannes, in Holy Motors di Leos Carax). È una regia che inoltre riesce a valorizzare delle scenografie ispirate e ben curate, in particolar modo nella fase finale, in cui la narrazione si sposta in un appartamento fatiscente che ricorda inevitabilmente alcuni ambienti visti nei precedenti film del regista, ad esempio Crash, Spider o eXistenZ, per ricordarne alcuni.
Il nome di Cronenberg viene spesso affiancato al thriller e all’horror (in particolare al sottogenere del body-horror, del quale gli viene attribuita la paternità), ignorando tuttavia come nel corso dei suoi quarantacinque anni di attività abbia spaziato tra film diversi senza mai rimanere stagnante in un unico genere cinematografico. È però a conti fatti altrettanto vero che l’orrore è un elemento costante nella sua filmografia, che sia nella mutazione di un corpo, in un amore fraterno troppo potente da sostenere o nel ritratto di una nazione unita sotto la violenza. E sicuramente l’orrore è presente anche in Cosmopolis, un film che, per quanto possa sembrare di altri tempi, si può ravvisare come uno dei pochi ad aver interpretato e ad essere figlio della nostra epoca.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.