
Con 701.3 milioni di ore di visualizzazioni in tre settimane Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer aggiudica il secondo posto tra le serie Netflix (in lingua inglese) più viste di sempre.
Sbarcata sulla piattaforma statunitense il 21 settembre, la mini serie prodotta da Ryan Murphy (Glee, American Horror Story) racconta con agghiacciante precisione la storia del serial killer Jeffrey Dahmer, che tra la fine degli anni ’70 e inizi ’90 uccise 17 uomini.
“L’ho guardato e poi ho letto le biografie. Ho anche ascoltato l’audio di quello che sembra uno psicologo o un detective che lo intervista mentre sta in qualche modo raccontando quello che ha passato, e il modo in cui parla è molto schietto e normale. È stato così sbalorditivo che tutto sia successo che ci è sembrato davvero importante essere rispettosi delle vittime, delle famiglie delle vittime cercando di raccontare la storia nel modo più autentico possibile”. Queste sono state le parole di Evan Peters riguardo la sua preparazione per l’interpretazione di Jeffrey Dahmer. L’attore di American Horror Story ha inoltre affermato che questo ruolo è stato il più difficile che abbia mai dovuto interpretare nella sua vita.
L’accusa alla società
La serie sul mostro di Milwaukee fa emergere inoltre temi delicati e purtroppo ancora attuali come omofobia e il razzismo.
Dahmer sceglie consapevolmente le proprie vittime tra le comunità afroamericane e asiatiche perché sono le meno protette dalle autorità. Ed è proprio a causa di questa mescolanza di discriminazione, razzismo e pregiudizi che il serial killer riesce ad agire indisturbato per più di 10 anni.

La critica feroce contro gli organi di polizia è evidente e giustificata. Le numerose chiamate al 911 della vicina di casa di Jeffrey, Glenda Cleveland, che supplicava di intervenire sono rimaste inascoltate. L’indignazione della donna (e nostra) raggiunge il suo apice nel momento in cui i due poliziotti giunti sul posto, disgustati dalla vista di due uomini insieme, riconsegnano al suo carnefice la vittima (un minore in evidente stato confusionale, riuscito a fuggire dopo la cattura). Senza accertarsi né della sua identità, né delle sue condizioni fisiche.
In questo eclatante episodio di omofobia e cecità volontaria è racchiuso il messaggio veicolato dalla serie. Se il tema primario è la presa di distanza dalle atrocità trasmesse dal suo protagonista e la volontà di mostrare la malvagità dell’essere umano, in secondo piano appare con chiarezza la critica alla società e alla sua ipocrisia.
La mediatizzazione della tragedia
Jeffrey Dahmer è nella sua cella, sta aprendo la posta indirizzata a lui. Con sua grande sorpresa riceve una lettera, è una lettera d’ammirazione. Il mostro ha una fan. E non è la sola, nel corso dell’episodio 9 riceverà altre lettere come questa, insieme a denaro e richieste di autografi.
Fino al momento della sua incarcerazione il serial killer del Wisconsin ha trascorso tutta la sua esistenza senza creare legami, emarginato da tutti. Soltanto nel momento della sua cattura e alla diffusione della sua storia, ecco che le persone lo notano, gli scrivono lettere, lo ammirano, lo amano. Il paradosso qui è sconvolgente. Nel luogo per eccellenza in cui la solitudine regna sovrana (il carcere) e le relazioni con il mondo esterno sono (sia fisicamente che concettualmente) lontani, improvvisamente Dahmer non è più solo.
Il mostro di Milwaukee è diventato un mito, la gente lo usa come un travestimento per Halloween, compaiono fumetti, Jeffrey Dahmer è una star.
A noi tutto questo mercato intorno a un fatto così drammatico e doloroso ci appare assurdo. Ne prendiamo le distanze, ci chiediamo come si possa anche solo pensare di lucrare sulla morte di decine di persone innocenti.
Eppure il polverone emerso dalla messa in onda della serie riguarda proprio questo tema. A partire dalla vendita degli occhiali da vista di Dahmer, venduti per 150 mila dollari. Inoltre la produzione è stata accusata di non aver avvertito i familiari delle vittime della sua realizzazione e la visione di essa ne ha fatto riemergere i traumi.

Qual’è allora il confine tra ciò che è lecito mostrare e ciò che sarebbe meglio evitare a tutti i costi? Che le produzioni (cinematografiche e televisive) abbiano sempre attinto a storie realmente accadute per realizzare i propri prodotti è un dato di fatto.
In generale si potrebbe affermare che negli ultimi anni si è notata una tendenza a prediligere storie controverse, psicologicamente crude e con una certa propensione ad esplorare le sfumature più recondite del male.

Studio Comunicazione, media e pubblicità amo il cinema, i tramonti e la fotografia. La vita è un film, scegli di essere il protagonista del tuo.