Dellamorte Dellamore: il prototipo di Dylan Dog

Nel 2010 accadde una cosa alquanto spiacevole: un film di quasi due ore su un mascellone di New Orleans armato di tirapugni d’argento per contrastare licantropi e mostri di ogni sorta. Leggenda narra che regista e produttori lo abbiano chiamato Dylan Dog: il film. D’altronde Brandon Routh indossava una camicia rossa e una giacca nera.

Se è vero che l’old boy bonelliano non trova una valida traduzione cinematografica in quella creatura informe, ci è di consolazione il ricordo di un film del 1994, nato dalla regia di Michele Soavi e ancor prima dalla penna dello stesso Tiziano Sclavi, padre di Dylan Dog: Dellamorte Dellamore.

Bisogna partire però dal 1983, anno in cui Sclavi terminò la stesura dell’omonimo romanzo, il più noto dei suoi lavori letterari. Il testo non fu pubblicato per anni, fino al 1991, quando ormai il fumetto di Dylan Dog continuava a riscuotere enorme successo fin dal suo esordio, nel 1986.

Dellamorte Dellamore fu, a conti fatti, un banco di prova per dare una prima forma a quello che non molti anni dopo sarebbe diventato uno dei più celebri e iconici personaggi del fumetto italiano: la prosa stessa ha ben poco dei canoni letterari, proponendosi più come una meticolosa sceneggiatura pronta ad assumere una narrazione sequenziale nelle vignette di un albo a fumetti. Non a caso Sclavi iniziò una breve collaborazione con Claudio Villa per declinare il romanzo in una forma fumettistica, senza però che il progetto potesse concretizzarsi (ne sono state rese pubbliche solo due pagine complete).

Questa breve collaborazione non risultò unicamente in un buco nell’acqua, ma si rivelò decisiva al momento della nascita di Dylan Dog: Claudio Villa fu infatti il primo copertinista della testata, e Sclavi si affidò a lui per la creazione grafica del personaggio, il quale doveva somigliare a Rupert Everett.

E così, nel 1994, tre anni dopo la pubblicazione  del romanzo, all’apice della popolarità di Dylan Dog, fu diretto da Michele Soavi, allievo di Dario Argento, il film Dellamorte Dellamore, con protagonista proprio Rupert Everett.

È senza ombra di dubbio un film strano, un caso unico nel cinema italiano di genere e non: si presenta come un film dell’orrore, ma l’insistente e acuta ironia va in contrasto con un suo preciso incasellamento nel genere, suggerendone piuttosto la più appropriata definizione di film grottesco. Non è quindi difficile riconoscerlo fin da subito come il “prototipo” di Dylan Dog.

Persino il protagonista, Francesco Dellamorte, suggerisce delle somiglianze con la creatura definitiva di Sclavi, oltre all’aspetto fisico. Non è né vegetariano né astemio, ma si presenta comunque come l’antitesi del classico eroe di fine anni ottanta: Francesco Dellamorte è il bizzarro custode del cimitero di Buffalora, un tipico paesino di provincia circondato dalle montagne, e ogni notte, come ordinaria amministrazione, deve gestire il risveglio dei morti a colpi di pistola in testa.

La situazione diventa problematica quando si rivela difficile distinguere i vivi dai morti, poiché tra morti viventi e vivi morenti, siamo tutti uguali. Inizia così il ritratto di un paese immerso nella noia e nel tedio, un limbo in cui la vita è scandita unicamente dai funerali e in cui ogni persona è condannata all’immobilismo, nell’impossibilità di portare la propria esistenza ad un reale progresso. Ogni delusione è destinata a verificarsi ciclicamente, e l’unica reazione possibile è la violenza. Ma per quanto siano atroci le proprie azioni, nel disperato tentativo di aprire uno squarcio nel proverbiale cielo di carta e di distinguere la vita dalla morte, non hanno mai un reale peso e tutto rimane quello che è sempre stato.

Francesco Dellamorte conduce la propria vita su due binari paralleli, la morte e l’amore, fallendo rovinosamente in entrambi: nella morte perché chi è defunto non si comporta più come tale e viceversa, invece nell’amore a causa delle continue inadeguatezze, che siano dettate dall’impotenza sessuale o dalle inevitabili incomprensioni. Quando neanche la violenza porta ad una rottura di questo stato di inerzia, viene tentata la fuga, risultando comunque nell’impossibilità di andarsene e nella condanna a scontare l’eternità in quel limbo.

Il penultimo film di Soavi è in definitiva quanto di più vicino si possa trovare ad una versione cinematografica di Dylan Dog, riflettendo perfettamente la poetica di Sclavi e gli stilemi del celebre fumetto bonelliano: il macabro e il grottesco definiscono la narrazione parallelamente ad un’ironia brillante e surreale, costruita su giochi di parole e rovesciamenti dei ruoli, mentre la vera inquietudine si impone nei momenti in cui viene proposto l’orrore del quotidiano e della monotonia, conseguendo, per paradosso, un costante senso di straniamento.

Proprio come uno dei migliori albi di Dylan Dog.

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