
Doctor Strange nel Multiverso della Follia arriva in un momento delicato del grande racconto Marvel, ancora all’inizio di una nuova fase che, per non soccombere sotto il peso della Saga dell’Infinito, si impone di alzare sempre più il livello, finendo tuttavia per boicottarsi da sola nel mentre che intraprende direzioni che non sa come percorrere né tantomeno dove porteranno: compie il proverbiale passo più lungo della gamba e l’esito inevitabile è tanta confusione, nella ricerca di una coerenza interna alla propria narrazione e, di conseguenza, nella gestione di quanto ha tra le mani.
In altri termini la Marvel, negli ultimi due anni, se da un lato si sta impegnando a proporre maggior varietà tra i propri prodotti, cercando di rinnovarsi e offrendo più ampie vedute stilistiche, dall’altro partorisce film che, per quanto nella sostanza possano offrire almeno a livello epidermico delle buone soddisfazioni, si rivelano gravemente manchevoli se osservati più attentamente. Sarebbe cosa buona e giusta se riuscisse a conseguire entrambi gli obiettivi di pari passo, ma non è con Doctor Strange nel Multiverso della Follia che correggerà il tiro. Eppure non è un capitolo banale da inquadrare.

Lo specchio di una quarta fase poco convincente
Innanzitutto, quest’ultimo lavoro viene fortemente penalizzato dall’obbligo di tenere le fila di una narrazione pregressa che, specialmente nell’ultimo anno, è ormai diventata molto corposa, cercando allo stesso tempo di mantenere una propria autonomia, di restituirla al proprio protagonista, ed evitando di mettere troppa carne al fuoco: non ci riesce pienamente perché, in sintesi, deve raccogliere i semi confusi e discutibili dei suoi più recenti predecessori, finendo per ribadire le difficoltà attuali dei Marvel Studios, pur non esasperandole come nel caso delirante di Spider-Man No Way Home.
Oltre a dei dialoghi discutibili nella parte centrale, uno svolgimento in linea di massima brusco e disordinato, vittima presumibilmente di più rimaneggiamenti, e con più di un’incoerenza nei confronti degli eventi da cui prende le mosse, Doctor Strange nel Multiverso della Follia, correva il concreto rischio di cadere sonoramente nella mediocrità generale della fase a cui appartiene. Eppure potremmo affermare che stavolta la forma diventa sostanza, perché l’impressione è che Sam Raimi si sia prestato al progetto finendo per renderlo proprio, conferendogli una dignità che altrimenti gli sarebbe stata estranea.
Se No Way Home era il giocattolone dei fan, questo è il giocattolone del regista, il quale si diverte a citare e ad interpretare se stesso, tanto nel bene quanto nell’eccesso, al punto che il temibile fan service, molto contenuto da parte della Marvel, è paradossalmente più presente da parte di Raimi stesso.

Il ritorno di Sam Raimi
È sorprendente la libertà creativa che è stata concessa al cineasta, non esistono compromessi. Sembra di rivedere L’Armata delle Tenebre, perché l’orrore è presente e viene decorato con il gusto per il macabro di Raimi e, per quanto non sia definibile propriamente un film horror (sarebbe stato fuori luogo pretenderlo), si spinge oltre ogni prevedibile limite e si concede a eventi di una violenza inaudita, seppur visivamente trattenuta, e coronata da momenti di regia tali da ricordare La Casa, in particolare il secondo capitolo.
La sceneggiatura stessa pare in più momenti concepita appositamente per il maestro, tanto da riproporre temi e stilemi del suo cinema, come per celebrare il ritorno sugli schermi di un regista che aveva segnato indelebilmente il cinecomic ai tempi della sua preistoria (prima con Darkman e poi con la celebre trilogia di Spider-man), portandolo però talvolta a sfiorare il manierismo, tanto viene calcata la sua impronta stilistica.
La regia incarna appieno il senso del film, dalla follia al delirio, ed è molto di più delle sequenze più smaccatamente “raimiane” fatte si sangue e zombi: è come se la mano di Sam Raimi legittimasse, rivendicasse e sfruttasse la povertà del contenuto per dare vita ad un divertente pandemonio, e il risultato finale risplende come una fenice che risorge, o nasce, dalle proprie ceneri.
Si rischia tuttavia di cedere al garantismo nei confronti dell’autore di turno, cosa su cui gli stessi Marvel Studios, in una certa misura, stanno cercando di giocare nell’ultimo periodo, in virtù della tanto ricercata varietà stilistica. Piuttosto merita chiedersi, oltre al contributo registico cosa rimane? Può funzionare comunque un film simile?

Dal corto circuito alla vittoria
Perché, a conti fatti, la seconda pellicola dedicata allo stregone (non più) supremo è vittima e contemporaneamente figlia di un corto circuito: è lineare e al contempo contorta, sembra ininfluente nell’ottica degli sviluppi futuri ma è memorabile in quanto caso unico nel filone di appartenenza, è strettamente legato agli eventi antecedenti ma finisce per tradirli dal primo all’ultimo. Riflette tutti i limiti attuali del grande racconto Marvel, eppure proprio esso stesso si è mostrato intraprendente come poche altre volte nelle scelte estreme che compie.
Il Multiverso della Follia è un paradosso che vive di paradossi, che però trova una propria ragion d’essere. La soluzione è chiara, ma non da dare per scontata. È evidente che, se il film si è salvato dalle proprie insufficienze, il merito è da ricondurre proprio al ritorno in pompa magna di Sam Raimi. Il regista domina il progetto, in una pellicola divertente e divertita, bizzarra e goffa, che viaggia ferocemente dal grottesco allo spettrale, passando per uccisioni brutali fino ad una chiusura alla Drag me to Hell.
Doctor Strange nel Multiverso della Follia è un film tanto diretto da Raimi quanto scritto dalla Marvel, e tra i due vince Raimi. L’imperfezione regna sovrana e non potrebbe essere più adorabile, perché il film stesso se ne bea e se ne diverte, finché la sua manchevolezza si trasforma in deformità sotto la direzione incontrollata e incontrollabile del maestro. Poi la deformità diventa anomalia e, dall’anomalia, l’anarchia.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.