
Goro Miyazaki torna alla regia di un film d’animazione dello Studio Ghibli dopo I racconti di Terramare e La collina dei papaveri, due lungometraggi molto interessanti e pregevoli pur non rappresentando dei casi eclatanti. Con Earwig e la strega, ispirato al romanzo di Diana Wynne Jones, viene tentata una rivoluzione estetica per il celebre studio d’animazione, che sperimenta per la prima volta la CGI, l’animazione digitale.
Sembra un tentativo da parte di Goro Miyazaki di allontanarsi dalla tradizione del Ghibli e dal padre (come già aveva silenziosamente affermato con I racconti di Terramare), ma è un tentativo condotto solo nella dimensione grafica, poiché nello schema narrativo non fa altro che riprendere per l’ennesima volta il topos della giovane strega, tanto caro allo studio nipponico.
Soprattutto, vengono ribaditi i forti limiti dell’animazione giapponese nei confronti della CGI, che qui, gommosa e scadente, annulla nella sua freddezza il calore e l’iconicità dell’animazione tradizionale del Ghibli, ereditandone comunque il tratto ma senza provare a riadattarne il fascino ad una nuova veste estetica.

Secondo film del Ghibli a debuttare in televisione (il primo destinato a tale distribuzione fu Si sente il mare nel 1993), presenta una storia senza capo né coda, artificiosa e pretestuosa, che prova invano e insistentemente ad essere simpatica e che non riesce ad inquadrare una vicenda su cui svilupparsi nonostante la durata: sarebbe inconcludente se avesse palesato una qualsiasi direzione.
Sembra volersi imporre come una versione aggiornata di Kiki – consegne a domicilio, dimostrandosi tuttavia incompatibile con la magia e il fascino dello studio d’animazione e tradendo l’universalità dei suoi racconti, che da sempre hanno saputo catturare e unire più generazioni.
In questo caso le pretese sono più modeste e viene ricercato l’apprezzamento di un pubblico di più piccoli, ma ciò non basta a scurare Earwig e la strega delle sue insufficienze: sbrigativo, algido, privo del consueto lirismo come di qualsivoglia carattere evocativo. È in altre parole un film insulso che non riesce a farsi forte delle peculiarità dell’animazione del Ghibli, rivelandosene il lavoro peggiore. La delusione è poi maggiore se si considera che il precedente lungometraggio, distribuito nel 2014, è il delizioso Quando c’era Marnie, che aveva lasciato ben sperare riguardo il futuro dello studio. Ora di speranza ce n’è ben poca, data la mancanza di una nuova generazione di vere personalità creative, che siano in grado di dare nuove prospettive al Ghibli al momento opportuno. Purtroppo, pare non riuscire a trovare una direzione senza i propri demiurghi, quali Miyazaki, Takahata e Suzuki, come affermato con tono grave dallo stesso Miyazaki nel documentario Il regno dei sogni e della follia.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.