
Grottesco, cinico, spietato, estetico, dissacrante questi sono solo alcuni aggettivi che riflettono al meglio le sfumature dell’universo cinematografico dei Coen Bros. Provenienti da una famiglia di origini ebraiche, i fratelli Joel (1954) ed Ethan (1957) Coen, sono senza alcun dubbio tra le più importanti personalità della cinematografia indipendente americana (e non). Più attento alla regia, il primo, e agli aspetti produttivi, il secondo, i cineasti di Minneapolis sono ormai autori di un corpo consistente di opere via via sempre di maggior pregnanza letteraria, soprattutto per l’approfondimento dei personaggi, molti dei quali rimasti scolpiti nella storia del cinema, nonché nell’immaginario collettivo. Figli entrambi del secondo dopoguerra, vivono sulla loro pelle enormi sconvolgimenti socio-culturali che andranno a riflettersi nel dedalo di personaggi del loro cinema. Nonostante una ostentata logica midcult, la formazione artistica e intellettuale dei due cineasti è frutto di un prestigioso percorso accademico. Corsi di cinema presso la New York University per Joel e una laurea in filosofia a Priceton, per Ethan.
Attingendo con grande originalità al grande serbatoio dei generi cinematografici, i fratelli Coen hanno offerto una visione spesso cruda della società americana, con una particolare attenzione alle realtà di provincia, in chiave spesso estraniata, deformata e paradossale fornendo la rappresentazione di un mondo caotico e disadattato, con personaggi “senza qualità”, “fuori ruolo”, che “subiscono la vita”, schiacciati dal corso degli eventi, dal quale possono uscire in un unico modo: perdendo. Il cinema dei fratelli Coen è sempre attraversato, a partire dagli albori, da un certo umorismo yiddish, da un gusto per la farsa grottesca, da soluzioni fumettistiche e da effetti derivati dalla screwball comedy, da un uso ironico del grand guignol con inserti pulp.
L’articolo che vi state accingendo a leggere si propone come un viaggio nella storia del loro cinema e non solo, perchè la loro attenzione ai generi e alla scrittura vi sembrerà volutamente un deja vu, per il continuo gioco di omaggi e citazioni a Capra, Hitchcok, Welles, Wilder, Hawks. Assai vivace è anche il loro stile fatto di impennate improvvise, prospettive distorte, uso marcato di grandangoli, accentuate angolazioni (a piombo, sghembe e supine) e movimenti di macchina impossibili, come quelli che si introducono in una bocca umana (Arizona Junior) e nel tubo di scarico di un lavandino (Barton Fink).
Come Jarmusch, Spike Lee, Tim burton, anche la carriera dei fratelli Coen si è mossa in buona parte nell’ambito del cinema indipendente. Tuttavia i loro film si caratterizzano per un maggiore e più evidente senso dello spettacolo, per una certa vicinanza nei confronti del pubblico, senza che questo mini affatto alla loro dimensione autoriale, con uno stile più mosso e colorato che in alcuni casi assume valenze di carattere post-moderno. Come tutti i grandi cineasti, i Coen sono prima di tutto appassionati della settima arte, cinefili onnivori, che hanno fruito e goduto del cinema classico per poi arrivare per esigenza stilistica a svecchiarlo e aggiornarlo. I primi passi nel meraviglioso mondo della settima arte sono stati mossi insieme a due altre menti: Sam Raimi e Barry Sonnenfeld con cui hanno realizzato i primi progetti amatoriali. Divenuto un cult assoluto, il prodotto che meglio esemplifica questa alleanza di menti artisticamente effervescenti è senza dubbio La casa (1982) diretto da Sam Raimi, a cui i Coen hanno contribuito in modo massiccio comparendo nei credits. Terminata questa digressione finalizzata a presentarvi al meglio i fratelli Coen, possiamo iniziare con l’analisi delle tappe fondamentali della loro filmografia per cogliere e sviscerare tutti gli aspetti: dagli albori ad oggi.
Blood simple (1984):

Il primo lungometraggio targato Coen Bros è un Noir puro come costruzione, all’interno del quale si possono scorgere già elementi di innovazione sul piano visivo e di regia. Blood Simple è infatti la storia di Julian Marty (Daniel Hedaya), un greco paranoico che gestisce un bar nel Texas, il quale scopre che sua moglie Abby (Frances Mcdormand) lo tradisce con un suo dipendente, Ray (John Getz), e ordina ad un investigatore privato di ucciderli. In questa prima fatica registica Joel e Ethan Coen mostrano di aver compreso il modello del Noir classico che sfruttano per la sua natura economica e al contempo spettacolare.
Il film infatti inizia con le immagini di una strada avvolta nella notte e di una macchina che sfreccia sotto la pioggia incessante. Qui conosciamo la coppia di amanti Abby e Ray, ossessionati dal sospetto di essere pedinati. Il genere di riferimento, a partire dall’inizio della pellicola, è quello del noir. Un ricorrente incipit noir riguarda infatti la soggettiva di un auto, che avanza gettando un fascio di luce lungo le strade desolate e solitarie immerse nel buio. Partiamo dunque da quest’ultima caratteristica, visto che apre idealmente Blood Simple. Le prime immagini del film ci mostrano un Texas da cartolina, con tanto di silhouettes delle pompe di petrolio in azione (inquadrate e fotografate successivamente da Paul Thomas Anderson ne “Il petroliere” nello stesso modo) stagliate su un cupo orizzonte desertico. La voce radiofonica di un predicatore ammonisce sui difetti della natura umana (la solitudine, l’egoismo, l’eterna infelicità), stabilendo indirettamente le coordinate morali del film – e di tutto il loro cinema a venire.

Blood simple mette in scena un’umanità gretta, meschina, in balìa del caso (o della fortuna se siete fan di Match point di Woody Allen), quest’ultimo incarnato da una regia onnisciente, messa completamente al servizio della narrazione che non si perde in virtuosismi sterili ma che ha tanta voglia di mostrare le capacità dei due cineasti, cosa tipica nelle opere prime. La prima disfatta beffarda dell’uomo, la prima sconfitta, il film non a caso si chiude con un sorriso sarcastico di un morente che ha tentato di prendere le redini del gioco attorno al quale è costruita tutta la narrazione. Blood simple è il primo scenario coeniano che mostra fraintendimenti, inganni, che sommandosi provocano un cortocircuito narrativo sempre ben gestito.

Dal punto di vista della regia si devono evidenziare due aspetti: l’impercettibile taglio di montaggio che conduce da un luogo all’altro senza che lo spettatore venga informato, magari inquadrato in continuità il volto di un personaggio e il movimento: una sigaretta che si spegne può diventare un dito che tocca del sangue sui sedili posteriori di una macchina. Dissolvenze quasi invisibili e illusioni di continuità spaziale rendono dunque Blood Simple una esperienza tutt’altro che ancorata al reale. D’altronde, «(…) la confusione è il cuore della specificità onirica del noir», scrivevano Raymond Borde e Ethienne Chaumeton, aggiungendo che, «nonostante l’accumulo di elementi realisti e documentari, la resa finale è quella di un’atmosfera da incubo (…), con lo scopo di disorientare lo spettatore». Non solo. A rendere altresì perturbante la visione di Blood Simple contribuiscono inquadrature fuori asse, riprese da punti di vista anomali e dettagli esasperati. In particolare, l’utilizzo del dettaglio conduce all’iperrealismo già frequentato da Martin Scorsese nel decennio precedente ad un punto di non ritorno. Inquadrature di pesci morti, accendini, pistole, stivaletti, ecc., ingranditi a dismisura sullo schermo, “eccitano” continuamente la visione spettatoriale, a scapito del senso che questi dettagli possano avere realmente all’interno dell’economia del film.

Il film noir è sempre un film di morte, è forse questa la direttiva principale dei fratelli. Blood simple è infatti un film in cui il sangue scorre “facile”; in cui i morti ritornano e i vivi sembrano morti. In questo modo i fratelli Coen inseriscono un tassello nel cinema degli anni ’80, caratterizzato da una voglia di discostarsi dall’iper-realismo dei ’70 e in questo Blood simple costituisce una tappa fondamentale di questo processo.
Fargo (1996):

Fargo è, senza alcun dubbio, il primo vero capolavoro dei fratelli Coen. Il sesto lungometraggio dei registi di Minneapolis è un successo di critica, con 2 premi oscar (per la miglior sceneggiatura originale e Frances Mcdormand come miglior attrice protagonista) e premio alla regia a Cannes. Questa pellicola inaugura una nuova stagione creativa per i due cineasti. La trama di Fargo ruota attorno a Jerry Lundegaard (William H.Macy) un venditore di automobili che si trova in grosse difficoltà economiche in seguito a operazioni al limite del lecito. Per risollevare le proprie sorti ha un piano: inscenare il rapimento della propria moglie e farsi pagare il riscatto dal ricco e odiato suocero, che di lui non ha mai avuto stima e l’ha sempre maltrattato. Per farlo, assolda due criminali, i grandiosi Steve Buscemi e Peter Stormare, che, in accordo con Jerry, rapiscono la moglie. Ma qualcosa va subito storto e si giunge cosi al primo sangue versato, che attira l’attenzione della detective capo della polizia Marge Gunderson, interpretata da Frances McDormand. Ancora una volta la sceneggiatura è di una precisione millimetrica che fonde più generi: si inizia con un thriller, poi si passa al road movie, alla commedia nera con tinte pulp. Per questo motivo, il cinema dei Coen sarà sempre più difficile da classificare con rigide etichette. Fargo è un grande esempio di fiction, anche se ora potreste obiettare dicendo <<Ma all’inizio della pellicola la scritta su sfondo nero avvisa: quella che vedrete è una storia vera. I fatti esposti nel film sono accaduti nel 1987 nel Minnesota>>. Su richiesta dei superstiti, sono stati usati dei nomi fittizi. Per rispettare le vittime tutto il resto è stato fedelmente riportato. Quindi la domanda sorge spontanea: E’ tutto vero quello che vediamo? Fargo è la storia finta di una storia vera? Forse si, forse no. Lo sanno solo i Coen che ben hanno compreso quanto il medium cinematografico possa ingannare. Il film infatti potrebbe benissimo essere un mockumentary. In questo modo i Coen continuano a sfrecciare sulla strada del surreale per allontanarsi da quella del reale.

Il film è meraviglioso perché i Coen creano un microcosmo che può esistere solo in quei 98 minuti, il Minnesota sembra essere un luogo sospeso nel tempo e geograficamente, diventando cosi un teatro, all’interno del quale viene descritta la stupidità umana, l’ipocrisia degli equilibri familiari in una armonia precaria, ottenuta solo grazie al denaro. La provincia quindi mostra il rovescio della medaglia dell’american dream. Questa è l’amara lezione di Fargo, che sì ci mostra il bicchiere mezzo pieno, ma di veleno. Il film utilizza molto i campi lunghi e lunghissimi, le distese di neve riempiono il Minnesota e la pellicola, un bianco candido e puro che viene sporcato da scene di violenza con schizzi di sangue improvvisi che ci vengono mostrati senza artifici. I Coen non lavorano quasi mai fuori campo quando mostrano la violenza. Questo contrasto è meglio esemplificato e coadiuvato dalla fantastica fotografia di Roger Deakins che scelse di utilizzare una tavolozza di colori che contrastasse gli esterni rigorosamente bianco-grigi con gli interni caldi e colorati, come se ci trovassimo davanti a due mondi: quello glaciale e inaridito delle strade e quello avvolgente e consolante delle case. Per restituire al meglio il paesaggio desertico e glaciale di Fargo, Deakins utilizzò in ogni caso pochissima luce artificiale, assorbendo il più possibile il candore della luce riflessa dalle distese ghiacciate e facendolo confliggere con il rosso ruggine del sangue nelle scene più pulp. In questo gioco di contrasti, un altro ruolo dominante nell’economia del film è dato dalle inquadrature: ognuna di esse ci racconta qualcosa dei personaggi.

Questo è solo uno dei tanti esempi che si possono trovare all’interno del film, costruito su un design dei frame curatissimo in cui tutti i comparti tecnici: regia, fotografia, montaggio, scenografia concorrono nel dare una testimonianza di quanto il cinema dei Coen sia eccellente. In questo modo il film non è solo un pretesto per raccontare una storia, ma una vera e propria esperienza visiva.
Il grande Lebowski (1998):
Passati due anni dal successo di Fargo, Joel e Ethan, dopo aver preso la curiosità del mondo del cinema, ottengono definitivamente l’attenzione del pubblico, consegnando ai posteri uno dei cult più geniali di sempre: “The big Lebowski”. Interpretato magistralmente da un Jeff Bridges in stato di grazia, il Grande Lebowski descrive le giornate del Drugo (Jeff Bridges), un nullafacente che ama bere white russian, giocare a bowling e fumare marijuana (figura liberamente ispirata al produttore dei Coen bros: Jeff Dowd, per questo in lingua originale il drugo si chiama “the Dude”). Il drugo è uno sbandato nell’animo, un pacifista che si ritrova invischiato contro la sua volontà in una storia fatta di scambi di persona, rapimenti, nichilismo, pornografia e urina su un tappeto che dava tono all’ambiente. Questo è solo un piccolo elenco di quello che si vede nella pellicola che è catalizzata e potenziata da un universo di personaggi irresistibili, su cui si potrebbero fare spin-off per quanto unici e grotteschi. Il grande Lebowski è un’opera unica e rara che fonde ancora una volta atmosfere, generi e sottogeneri, onirico e reale apparentemente discordanti, insomma un minestrone in cui ogni sapore è riconoscibile e ben bilanciato nella visione di insieme. Ma qual è il segreto? Alla base c’è ancora una volta una impostazione Noir. L’intero film prende spunto da archetipi e meccanismi del cinema anni ’40 (Il grande sonno di Howard Hawks in particolare) ma con una rilettura tutt’altro che seria. E’ proprio il tappeto che costituisce il Macguffin del film (teorema hitchcokiano), il motore che fa partire la narrazione. Uno dei maggiori pregi del film è certamente, l’eccezionale gruppo di personaggi che ruotano attorno al Drugo, in grado di lasciare il segno nonostante l’esiguo minutaggio in cui compaiono sullo schermo, come Jesus (John Turturro), un pederasta e fenomeno del bowling, e la radical chic Maude (Julianne Moore).
Il cuore del racconto è però composto dall’onnipresente Drugo e dai suoi fidi compagni di Bowling, ovvero il reazionario e veterano del Vietnam Walt (John Goodman) e il povero Donny (Steve Buscemi). I loro surreali dialoghi sulla vita, sulla società e sugli affetti sono assolutamente esilaranti e costituiscono la spina dorsale su cui i Coen imbastiscono un ragionamento decisamente atipico e sottile sull’amicizia. Impossibile non sbellicarsi dalle risate davanti agli assurdi duetti fra il pacifista e compassato Drugo che cerca costantemente la soluzione più semplice e pacata a ogni problematica, e il rissoso Walter, rimasto con la testa e con il cuore in Vietnam e disposto a fare emergere la sua esperienza bellica nelle situazioni più inaspettate, come una partita di torneo di bowling o la commemorazione funebre di un amico.

Gran parte della fama e dell’amore che gli appassionati nutrono per Il grande Lebowski è da attribuire all’impressionante numero di scene madri disseminate nel corso della pellicola e dalle memorabili battute entrate ormai a far parte dell’immaginario collettivo. Doveroso citare le due straordinarie sequenze oniriche con protagonista Drugo intento a volare sul cielo di Los Angeles e a scatenare il suo inconscio a proposito delle sue più grandi passioni, ovvero il bowling e le donne. Impensabile inoltre non soffermarsi sulla digressione a casa del giovane Larry, con relativo tentativo di intimidazione del piccolo da parte di Walter, allo stravagante spargimento delle ceneri sulla costa californiana, alla potenziale sparatoria innescata su un contestato punto di una partita di bowling o alla buffa visita di Drugo alla residenza del pornografo e malavitoso Jackie Treehorn.
La pellicola è ulteriormente impreziosita da soluzioni visive e di montaggio da scuola di cinema: sound bridge, attacchi sull’asse, inquadrature supine e a piombo, una soggettiva di una palla da bowling che rotola dopo aver risucchiato Jeff Bridges.


Per l’ennesima volta i Coen sono abilissimi nel tessere in due ore una trama originalissima, con un ritmo incalzante che conduce di nuovo ad un finale amaro dopo averci regalato momenti esilaranti. Perché la vita alla fine è cosi: <<a volte sei tu che mangi l’orso e altre volte è l’orso che mangia te>>.
L’uomo che non c’era (2001):
1949, Santa Rosa in California. Ed Crane è un barbiere triste, ha una vita piatta, spenta e monotona, senza alcuna prospettiva. Sospetta che la moglie Doris (sempre Frances Mcdormand) abbia una relazione con un altro uomo e per cercare di risollevarsi dal grigiore della sua esistenza decide di investire denaro in un nuovo business: il lavaggio a secco. Estorce quindi una somma di 10.000 dollari dall’amico Dave, che è l’amante della moglie, tra i due nasce una collutazione e Ed per difendersi uccide Dave. La moglie è la principale sospetta per assenza di alibi e per aver contraffatto il bilancio della lavanderia in cui lavorava con a capo Dave. In poco tempo Ed si trova in una spirale dalla quale non può sottrarsi, tutto ciò che gli resta è accettare la sconfitta con rassegnata consapevolezza.
Quando all’inizio della recensione ho scritto che i personaggi dei Coen sono tutti perdenti in qualche modo, non ho esagerato e “L’uomo che non c’era” è forse la pellicola Made in Coen Bros che più di tutte mette in scena la sconfitta e la tristezza di una vita che ha tanto nero, con il bianco che è semplicemente un’illusione. La stessa fotografia è la proiezione dello stato interiore dei personaggi, Ed Crane (Billy Bob Thornton) ha sempre uno sguardo perso, segnato da una vita che non vive ma subisce e anche quando parla a noi spettatori come voce fuori campo percepiamo il suo avvilimento che lo accompagnerà per tutta la durata della pellicola.

La prima cosa da notare è che tutti i personaggi che vediamo sullo schermo, non solo Ed, sono mossi da una disilussione verso la vita moderna e in generale un senso di piacere per essa eternamente inappagato. Ed è pronto a superare il fatto che la moglie lo tradisca ma non che Dave si possa rifiutare di pagarlo. Doris è invece una donna in carriera dedita ad un consumo massiccio di alcol per scappare da una vita piena di vuoto. Dave è l’incarnazione del capitalismo moderno, un uomo con tanto di sigarone che preferirebbe uccidere piuttosto che perdere denaro. Una critica nerissima alla società che non può che concludersi in maniera nerissima. Dentro questo teatro di pulsioni umane è Ed stesso “ l’uomo che non c’è”, le persone lo notano solo in quanto barbiere e non come persona. Una nota però va fatta per Birdy, il personaggio interpretato da Scarlett Johansson che rappresenta un flebile barlume di speranza e di purezza che verrà comunque contaminata indelebilmente, forse è anche per questo che Ed ne è attratto; non prova un’ attrazione sessuale per lei, ha sentimento paterno, volto a proteggerla e preservarla nella valle di lacrime in cui sono immersi tutti i personaggi de “l’uomo che non c’era”.
L’odore di Noir è intenso per tutta la durata del film che questa volta non ha un minimo di ironia, è tutto giocato su toni cupi sublimati grazie alla superba fotografia del maestro Roger Deakins che ottiene questa palette desaturando i colori della pellicola, in questo modo noi spettatori siamo catturati prima sul piano visivo e poi quello narrativo. Registicamente Joel Coen ha una regia pulitissima, a tratti classica e invisibile con rari sprazzi di virtuosismo, proprio per questo “l’uomo che non c’era” è decisamente il film più classico per messa in scena dei fratelli Coen. Anche la scelta della colonna è giocata tutta sulla musica classica con la sonata al chiaro di luna di Beethoven che funge da leitmotiv musicale.

Quando utilizziamo la parola “inquadratura” il termine suggerisce subito “quadro” e i Coen lo sanno bene, tutto il film ha singoli frame che potrebbero essere benissimo esposti in una galleria, la cura del fotogramma è perfetta: tagli di luce di matrice espressionista e citazioni a quel capolavoro di Quarto Potere del maestro Orson Welles.


A serious man (2009):
Come ultimo film da analizzare in questa cavalcata nel cinema dei Coen, non poteva mancare il loro film più difficile e criptico, ma soprattutto quello meno capito, anche dagli stessi fan dei Coen: “a serious man”. Questo film è, a mio avviso, la summa di tutto il percorso cinematografico dei registi di Minneapolis che decidono di ambientare la pellicola proprio nella loro città natale. Il loro 16esimo film narra la storia di Larry Gopnik, un professore di fisica debole, schivo che sta vivendo il peggior anno della sua vita: la moglie Judith vuole un divorzio rituale per potersi risposare nella fede, con il vicino e amico di famiglia Sy Ableman e lo manda a vivere in un motel; il fratello disoccupato Arthur vive sul suo divano, il figlio Danny fuma spinelli mentre è in procinto di festeggiare il suo Bar Mitzvah, la figlia Sarah invece gli ruba i soldi dal portafoglio per farsi fare un intervento di rinoplastica. A complicare ancora di più la situazione, si mette in mezzo anche uno studente coreano, che prima tenta di corromperlo e poi lo minaccia di denunciarlo per diffamazione. Come può il nostro Larry trovare confronto e risalire da questa parabola discendente della sua vita? Con la fede ovviamente, infatti egli chiederà consiglio a tre rabbini diversi, tentando inutilmente di risolvere i suoi problemi e trovare risposta all’accanimento di Dio verso di lui che è sempre stato un uomo serio.

In un’ottica come quella della religione ebraica (e non solo), in cui anche la peggiore delle tragedie viene accettata e considerata un dono della “volontà di Dio”, Joel e Ethan Coen mostrano quanto la fede possa costituire un antidoto naturale contro l’entropia e l’imprevedibilità della vita, eppure questo a Larry non può bastare e, seppur in un primo momento egli sembra accettare il verdetto della “volontà di Dio” il cui scopo non ci è dato conoscere, successivamente si allontana. Perché come può questa risposta essere sufficiente anche davanti alla morte? L’intensificarsi delle disgrazie di Larry infatti, viaggia di pari passo con la perdita di fiducia verso le figure che amministrano il volere di Dio sulla terra: i rabbini, che sono a metà fra un consigliere, un giudice, un amico e un saggio e i Coen ce li mostrano in tutta la loro inadeguatezza.
La pellicola è infatti divisa strutturalmente in capitoli, che corrispondono all’incontro con i tre rabbini della comunità. Primo rabbino Scott, poi il rabbino Natcher e in ultimo il rabbino Marshak, ritenuto da tutti l’unico in grado di fornire risposte di cui ha bisogno Larry che neanche lo riceve. Per tutta la durata di “A serious man”, il protagonista da sempre l’idea di essere sull’orlo di una crisi, vittima di disgrazie senza fine, eppure la carica innestata non esplode mai.
Le chiavi di lettura possono essere numerose ma sicuramente quella più efficace è il parallelismo con la figura di Giobbe nell’antico testamento, la cui fede è messa a dura prova da terribili eventi. Il film è ulteriormente caratterizzato da un perenne fluttuare tra il nichilismo e il beffardo e con dei primi piani insistenti su Larry, in questo modo la vicinanza della macchina da presa rende anche noi più vicini e partecipi al suo dolore che possiamo solo osservare impotenti.

Sicuramente il film più pessimista e cattivo dei fratelli Coen che verso la fine suggeriscono non solo la morte del protagonista ma anche l’arrivo dell’apocalisse.
Giunti al termine di questa discesa nella filmografia dei fratelli più famosi di Hollywood è bene evidenziare alcuni aspetti che fanno da filo conduttore in tutta la loro carriera. Come già detto nell’introduzione dell’articolo i personaggi dell’universo coeniano sono tutti dei perdenti poiché vinti, dal caso o da forze più grandi di loro, ma il modo in cui vengono inscenati dai Coen è diverso: non c’è nei loro film, dolore per la sconfitta, ma la consapevolezza mista a rassegnazione verso un inerme dato di fatto che è quello della precarietà dell’esistenza. La maggior parte dei loro protagonisti sfidano la fortuna e ne restano perdenti, come se quest’ultima fosse una componente sadica e punitiva che sottomette gli uomini al suo giogo. I Coen ci suggeriscono nei loro film che è possibile convivere con questa triste consapevolezza trovando momenti di quiete che ci distolgono da essa: attraverso il cazzeggio e il bowling ne “Il grande lebowski” , con la maternità e la famiglia come suggerisce il personaggio di Marge in “Fargo”, non cercando alcun tipo di significato verso la realtà che non ha alcun senso da qualunque punto di vista si decida di guardarla e ricordando che la vita è cosi: <<a volte sei tu che mangi l’orso e altre volte è l’orso che mangia te>>.

Studente di scienze della comunicazione dei media e cinema, appassionato di arte in tutte le sue forme specialmente la settima.