
“Svegliatevi, in piedi, in piedi, che aspetti fratello?”. È con questo monito che si apre “Fa’ la cosa giusta”, il terzo lungometraggio di Spike Lee: un primo piano sulle labbra di Samuel L. Jackson che esorta tutti gli ascoltatori sintonizzati sulla sua radio a non rimanere con gli occhi chiusi.
A trent’anni dalla sua uscita, l’errore principale che si tende a fare quando si analizza “Do the right thing” è quello di ridurlo ad una storia strettamente statunitense, a una riflessione sull’identità e sul razzismo che non riguarda noi europei. È come se si innescasse un meccanismo di autodifesa: ci convinciamo che quelle prime parole non siano dirette anche a noi perché, ammettere che il microcosmo di Brooklyn in cui si svolge la vicenda è in realtà un’allegoria del nostro mondo, significherebbe mettere anche in dubbio le nostre certezze e la convinzione di essere anti-razzisti e aperti nei confronti di altre culture.
Prima di partire con l’analisi della pellicola, è doveroso contestualizzare “Do the right thing” nella filmografia del cineasta afroamericano. Cercando di sviscerare le influenze e gli aspetti più importanti del suo cinema, parleremo anche del suo marchio di fabbrica: il “double dolly shot”.
Espressione della cultura afroamericana, attraverso un corpo di opere che hanno, in diverse occasioni privilegiato il punto di vista corale di una collettività rispetto a quello di un singolo individuo, il cinema di Spike Lee, ha saputo efficacemente fondere i modelli del film classico hollywoodiano e una serie di istante provenienti dalla stagione della nouvelle vague e dalle forme del documentario militante.
I lavori del regista, in cui il mescolamento dei generi si accompagna ad effetti brechtiani, come quelli di personaggi che parlano rivolti alla macchina da presa e allo spettatore, abbattendo la quarta parete (camera look), mettono in scena la realtà multietnica americana, in particolare quella della comunità nera. I film di Spike Lee affrontano esplicitamente tematiche razziali e il loro irradiarsi all’interno di diversi gruppi. Segnato da un impulso didattico ben evidente, a volte didascalico, il cinema di Lee ricorre a uno stile molto variegato, in cui l’uso della musica (spesso, ma non sempre di musicisti neri), dei movimenti di macchina e del colore, assumono, insieme alla città di New York, un ruolo in primo piano.
Affermatosi come indipendente ha poi avuto modo di lavorare anche con gli studi, mantenendo però quasi sempre intatte la propria originalità espressiva e la forza dei suoi contenuti, collocandosi a metà tra il cinema di Oscar Micheaux (il primo regista nero che con “Within our gates” fornì la risposta “nera” a “Nascita di una nazione” di Griffith) e Melvin Van Peebles, il padre della Blaxploitation. Configurando il suo cinema come funzionale ed estetico.

Nato ad Atlanta nel 1957 e iscrittosi ai corsi dell’Institute of Film and Television della New York University, Lee realizza alcuni cortometraggi fra cui The Answer, esplicitamente polemico nei confronti del razzismo del griffithiano “nascita di una nazione”. Ancora prima che la sua carriera iniziasse il giovane “Spike” (nomignolo assegnato dalla madre per via della sua corporatura esile e del suo carattere ribelle) mostrava di voler comprendere il mezzo cinematografico per usarlo come arma contro lo star system dominato dai bianchi.
Personalità eccentrica, amata e odiata, spesso sgradita, Spike Lee ha raggiunto vette di puro cinema, che gli hanno permesso il 6 dicembre 1984 di creare la sua compagnia di produzione: la 40 acres & mule Filmwork. Il nome deriva dalla promessa di risarcimento fatta agli schiavi africani nel 1865. Alla fine dello schiavismo negli Stati Uniti: venivano promessi, appunto, 40 acri di terra e un mulo. La promessa però non fu mai mantenuta.
<<Sono stati ben pochi gli schiavi affrancati ad ottenere davvero i quaranta acri e il mulo che gli erano stati promessi… quindi il nome che ho scelto per la mia casa di produzione è il simbolo di una promessa non mantenuta>>
-Spike Lee
Il primo lungometraggio di Spike Lee, Lola Darling, è un vero e proprio manifesto del cinema indipendente americano: piccolo budget, uso del bianco e nero, riprese semi-improvvisate, attori esordienti e tutti afroamericani. La storia che verte sui rapporti di una ragazza nera con i suoi amanti, è messinscena nella forma di una commedia, segnata da evidenti elementi di innovazione rispetto ai modelli classici come testimoniano i monologhi rivolti allo spettatore, l’intermezzo musicale, a colori e gli espliciti riferimenti sessuali. Il successo del film è confermato successivamente proprio da “Fa’ la cosa giusta” (1989).
Do the right thing (1989):
In un progressivo movimento lungo l’asse commedia-dramma-tragedia e ispirandosi a fatti realmente accaduti, “Fa’ la cosa giusta” narra in modi molto colorati, la quotidianità di molta gioventù nera afroamericana, delle tensioni razziali che avvengono nel corso di una sola giornata nel quartiere-ghetto di Bedford-Stuyvesant a Brookklyn, fra alcuni giovani di colore e una famiglia di italoamericani che gestisce una pizzeria.

Lee economizza gli spazi (un appartamento, una pizzeria, due-tre marciapiedi) e ambienta il suo rabbioso apologo antirazzista nel preciso arco temporale di 24 ore di un caldissimo giorno d’estate, esattamente in un sobborgo di Brooklyn multietnico ma a maggioranza afroamericana.
Sal (Danny Aiello) e i suoi due figli Vito e Pino, interpretati rispettivamente da Richard Edson e John Turturro, gestiscono una pizzeria nel cuore del quartiere e rappresentano un eccezionale caso di integrazione che, a partire dalle prime sequenze appare subito precaria e instabile. Mookie, interpretato dallo stesso Spike Lee, lavora nel locale di Sal come fattorino. Nonostante le divergenze e i suoi costanti ritardi, Sal considera Mookie come un terzo figlio e anche lui sembra molto affezionato alla pizzeria, malgrado le frequenti discussioni con Pino su tematiche razziali.
Un giorno, tuttavia, la situazione già vacillante, raggiunge il punto di non ritorno: Buggin Out (Giancarlo Esposito) e il robusto Radio Raheem (Bill Nunn), tutti e due afroamericani, tentano di boicottare la pizzeria di Sal, accusandolo di essere razzista. L’uomo dovendo fronteggiare una situazione di pura tensione, reagisce molto duramente e, in poco tempo, tutti i conflitti latenti nascosti sotto il tappeto esplodono furiosamente. L’intervento della polizia in favore del proprietario non fa che peggiorare la situazione, generando un’ondata di indignazione generale da parte della comunità nera che finisce con il coinvolgere anche il placido Mookie. Il quartiere ha superato il limite e la crisi e la frustrazione dei suoi abitanti si è riversata nelle strade.
Il soggetto del film di Spike Lee attinge a fatti realmente accaduti: una rivolta ad Harlem avvenuta negli anni ’40 e culminata con l’omicidio di un afroamericano da parte di otto poliziotti. In particolare, si fa riferimento all’Howard Beach Incident, ovvero il brutale pestaggio di tre ragazzi di colore da parte di bianchi, armati di mazze e tirapugni, davanti ad una pizzeria locale.
Come dicevo qualche riga più sopra, una delle componenti stilistiche del cinema di Spike Lee è il camera look: personaggi che abbattono la quarta parete e si rivolgono direttamente a noi spettatori. In “Fa’ la cosa giusta”, infatti, è presente una sequenza iconica in cui Spike Lee fa sfogare verbalmente, con lo sguardo dritto verso la mcp, i rappresentanti di ciascun gruppo etnico: ogni monologo è una sequela di insulti basati su classici pregiudizi e serve a spiegare come un melting pot non sia garanzia di integrazione. Anche se vivono nella stessa strada che ha per epicentro la pizzeria, i protagonisti si odiano e hanno paura che, mischiandosi, possano “sporcare” la propria identità. Non a caso dopo il primo scontro con Sal, Buggin Out uscendo dalla pizzeria, dice a Mookie: “resta nero”.
La pellicola presenta momenti volutamente lenti, proprio perché Spike Lee vuole farci “entrare” dentro il quartiere, attraverso il sapiente utilizzo di macchine da presa quasi sempre a mano, che rendono la regia più immersiva e dinamica. Ricorre invece alla macchina fissa su cavalletto negli interni con inquadrature statiche e un montaggio ridotto all’essenziale, creando proprio quella sensazione di calore che respirano i protagonisti della vicenda che prende corpo e vita nel suo film. Non è casuale, ad esempio, il calore che tormenta e fa sudare i personaggi che dominano la narrazione, inteso come una metafora della tensione che, come in una pentola a pressione, una volta raggiunto il picco di temperatura ha necessariamente bisogno di sfogarsi.
Quello che sorprende maggiormente in “Do the right thing” è l’abilità con cui Lee è riuscito a caratterizzare in maniera emblematica tutti i personaggi del suo microcosmo. L’iconico Radio Raheem è un ragazzo imponente che indossa una maglietta con la scritta “Bed-Stuy”(autocitazione del suo primo film “Joe’s Bed-Stuy Barbershop: We Cut Heads”), che va in giro con un ghettoblaster a tutto volume con “Fight the Power” dei Pubblic Enemy (di cui lo stesso Lee ha prodotto e girato il videoclip) e indossa sulle nocche due tirapugni d’oro con la scritta “love” e “hate”, una chiara citazione de “La morte corre sul fiume” di Charles Laughton.
Radio Raheem e i tirapugni iconici con la scritta “amore e odio” Le mani di Robert Mitchium nel film “la morte corre sul fiume”
“Lasciate che vi racconti la storia della mano destra e della mano sinistra. È una storia del bene e del male. Odio: è con questa mano che Caino ha ucciso suo fratello. Amore: queste cinque dita, vanno dritte nell’anima dell’uomo. La mano destra: la mano dell’amore. La storia della vita è questa: statica. Una mano lotta sempre contro l’altra mano, e la mano sinistra picchia molto più forte. Insomma, sembra che la mano destra, l’Amore, sia finita. Ma aspettate, fermi tutti, la mano destra è tornata. Sì, ora sta spingendo la mano sinistra agli angoli del ring. Oddio, è un gancio destro e ora l’Odio è ferito, è a terra. L’ Amore ha messo KO l’Odio.”
-Radio Raheem, Bill Nunn
Nel suo monologo (identico a quello nel film di Laughton) Radio Raheem spiega la stretta correlazione tra questi due sentimenti.
L’odio vince spesso in contesti familiari, proprio come quelli rappresentati nel film, e il razzismo degli uni verso gli altri non ha nessuna base: ed è quello che Spike Lee cerca di spiegare non prendendo una chiara posizione sugli eventi raccontati. Lo fa esaltando la natura grottesca di questo atteggiamento: mostra sia Buggin Out, l’attivista nero che dice di odiare gli italiani con in mano un trancio della loro pizza, e il razzismo simile del nostro connazionale Pino. Quest’ultimo prova a giustificare il suo odio selettivo per le persone di colore che ha intorno, separandole in maniera totalmente arbitraria dai suoi miti sportivi e musicali. Dunque, è soltanto la fama che fa passare in secondo piano la questione razziale, miti come Prince e Magic Johnson sono “più che neri”, quindi degni della sua ammirazione.
D’altro canto, nessuno dei personaggi si sente razzista o ammette di esserlo: ogni comportamento viene interpretato come un semplice gesto di autodifesa, un atteggiamento necessario per salvaguardare la propria identità culturale. Le battutine a sfondo razziale che Sal scambia reciprocamente con Mookie o il suo cocciuto rifiuto ad affiggere la foto di un nero sul muro, sono comportamenti che il proprietario della pizzeria non interpreta come spie di un senso sopito di pregiudizio verso chi è diverso. Eppure, Sal sul finale esplode e perde il controllo, dimostrandosi diverso da ciò che era convinto di essere: sembra quasi che Lee, attraverso tale sfogo voglia smascherare anche il pubblico, forzandolo a misurarsi con quei pregiudizi e quelle paure che si nascondono anche in chi si dichiara profondamente antirazzista. Altro merito del cineasta afro-americano è quello di aver messo in scena i vari elementi del problema razziale, non solo come diretta conseguenza della dialettica tra culture diverse e i tentativi di prevaricazione dell’una sull’altra, ma anche quale risultato delle contraddizioni legate alla mancata coesione della comunità nera, divisa al suo interno dall’egoismo dei singoli, quindi sostanzialmente priva di una coscienza che le permetta di unire gli sforzi nel perseguimento della propria indipendenza e autodeterminazione.
Dunque, la comunità nera non esce indenne e immacolata dalla rappresentazione di Spike Lee: ci sono aspetti della sua compagine che il regista non tollera e che evidenzia attraverso il suo personaggio Mookie, il quale, al di là di qualche slancio estemporaneo viene ritratto nel suo esclusivo interesse per il denaro, elevato a valore massimo.
Altra critica messa in scena in chiave tragicomica è quella del feticismo delle merci. Il tema viene affrontato in due sequenze legate al brand sportivo delle scarpe firmate da Michael Jordan possedute da Buggin Out, che vengono accidentalmente schiacciate con la bicicletta da un personaggio interpretato da John Savage, immediatamente accerchiato e minacciato solo per aver rovinato la calzatura. Tale parossismo trova esemplificazione nella sequenza successiva di un primo piano su di essa sporca, e dello spazzolino che cerca ossessivamente di ripulirla dall’oltraggio subito.
Nella filmografia di Spike Lee “Fa’ la cosa giusta” rappresenta un punto di svolta per almeno due motivi: primo perché mai è accaduto, a livello di grande produzione, che un regista afro-americano potesse esprimersi a proposito della propria gente con i mezzi e la libertà messi in campo da Lee; secondo, rispetto a precedenti lungometraggi, collocati in un contesto yuppie, che in qualche modo preserva i personaggi dagli aspetti più crudi della realtà, questo film mette il dito nella piaga, si sporca le mani immergendosi nelle viscere delle comunità nere proletarie e operaie, in una cultura di strada di cui sono espressione i ritmi creati dai già citati Pubblic Enemy, le cui hit sono espressione del canto di rivolta scaturito dall’incontenibile sofferenza di chi deve subire le storture del potere e di chi lo esercita.
Un’altra interessante connotazione è di carattere strettamente cinematografico e riguarda il modo in cui Lee riesce a tradurre sullo schermo la carica sovversiva della sua sceneggiatura (a detta del regista, scritta in soli 12 giorni), attraverso una commistione di immagini e parole che vanno di pari passo con il montaggio sonoro che detta i ritmi della narrazione.
Inoltre, nelle scene in cui la tensione è alle stelle, il regista si serve di inquadrature sghembe (storte), che conferiscono alla scena un assetto quasi fumettistico, in perfetta sintonia stilistica con il conflitto tra i personaggi e le storture dei loro caratteri.
esempi di inquadrature sghembe: entrambi i frame presentano inquadrature storte che riflettono il grado di alterazione dei personaggi, ad un maggiore angolo di inclinazione, corrisponde un maggiore grado di alterazione. Infatti Radio Raheem e Buggin Out sono più inclinati del pizzaiolo Sal.
Estremamente simbolica è anche la scena dell’omicidio, da parte della polizia di Radio Raheem, cui vengono inquadrati solo i piedi in preda agli spasmi da soffocamento. Spike Lee inquadra i piedi che non poggiano a terra e non la faccia di Bill Nunn morente, come se volesse suggerirci che in quel momento non è l’attore ad essere strangolato, ma un’intera comunità il cui viso non si mostra, perchè la comunità nera ha tanti visi, ma nessun volto, nella società americana.

Tenendo a mente l’asserzione del titolo del film, si potrà poi constatare nelle scene finali che tale imperio assume una sfumatura meno netta, lasciando spazio all’interrogativo su quale sia effettivamente la cosa giusta da fare. Non a caso, dopo il long take finale con la voce fuori campo del Griot Love Daddy, interpretato da Samuel L. Jackson, abbiamo una dissolvenza in nero su cui campeggiano due citazioni di Martin Luther King e Malcom X (di cui Spike Lee dirigerà il suo biopic), i quali, rispetto alla questione del razzismo e della sua risoluzione, offrono alla comunità afroamericana possibilità diametralmente opposte che, similmente all’amore e all’odio, è impossibile scindere poiché mani di uno stesso corpo, destinate perennemente a contendersi il primato sul palcoscenico del teatro delle vicende umane.
Il film esce negli stati uniti il 18 maggio 1989, scatenando accese polemiche: accusato di istigare violenza e di essere a sua volta razzista e omofobo, “Fa’ la cosa giusta” tiene banco per settimane i giornali e i media, incassando una cifra pari a 27 milioni di dollari che, rispetto ai 6 milioni investiti per la sua realizzazione, decreta la riuscita commerciale dell’operazione che lasciò parlare tantissimo di sé anche durante la notte degli Oscar del 1990 in cui Kim Basinger, durante il suo discorso con la voce leggermente emozionata affermò: “Tutti i film nominati dicono la verità ma ce ne sono alcuni che la dicono di più. Il miglior film dell’anno non è tra i candidati ed è Fa’ la cosa giusta”.
Dopo Fa’ la cosa giusta:
Dopo “Fa’ la cosa giusta”, Spike Lee continuerà ad analizzare i rapporti interraziali, gli stereotipi, i pregiudizi e lo sfruttamento di varie categorie.
In “Mo’ Better blues” viene messo in evidenza lo sfruttamento dei musicisti neri da parte della società bianca. Un altro spaccato di vita newyorkese è quello offerto da “Jungle Fever”, in cui il rapporto fra un uomo di colore e una donna bianca diventa occasione per riflettere sugli stereotipi sessuali attraverso cui i bianchi e neri si percepiscono rispettivamente. Prodotto dalla Warner, non senza tensioni e scontri col regista è invece “Malcom X”, che ricostruisce la vita del leader afroamericano dall’adolescenza al suo assassinio, secondo modelli che sono parsi troppo legati agli standard dei biopic hollywoodiani. La voglia di indipendenza del cinema di Spike Lee si riscopre, invece, coi successivi “Crooklyn” e “Clockers”, due visioni della vita afroamericana a Brooklyn. Il primo, ambientato negli anni ’70, è la vivace rappresentazione della vita quotidiana di una numerosa famiglia di colore e dei suoi rapporti col vicinato, scandita al ritmo di successi musicali d’epoca; il secondo, prodotto da Scorsese, prende invece le mosse dall’omicidio di uno spacciatore nero e dalle indagini che ne seguono, per dar corpo a un noir nello stesso tempo realista e visionario.
Con “Bus-in viaggio” Lee conferisce al film uno stile documentaristico e, attraverso la messa in scena del viaggio in autobus, si serve dei suoi personaggi per mettere a nudo le contraddizioni interne alla comunità afroamericana, proprio come aveva fatto in “Do the right thing”. Dopo “He Got Game”, una vera e propria metafora esistenziale attraverso la rappresentazione del mondo del basket americano, “sport nero” per eccellenza, Lee realizza uno dei sui film più travagliati: “S.O.S Summer of Sam- Panico a New York”, il cui oggetto di analisi questa volta è la comunità italoamericana. Nella sua coralità il film ospita diverse etnie e culture alle prese, un po’ come accadeva in “M. il mostro di Dusseldorf” di Lang, con una spietata caccia ad un serial killer che agisce nel Bronx.
Risale al 2018 la sua ultima migliore fatica, registica intitolata “Blackkklansman”, storia del poliziotto afroamericano Ron Stallworth che riuscì ad entrare nel Ku Klux Klan. Il film, che contiene anche frame della celebre opera di Griffith “Nascita di una nazione”, gli ha fruttato una statuetta agli Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
Il double Dolly Shot:
Per spiegarvi al meglio questa tecnica, diventata un marchio di fabbrica di Spike Lee, che la presenta in ogni suo film, ho scelto di mostrarvi l’esempio più iconico: quello in Malcolm X.
Nel double dolly shot infatti, i personaggi sono inquadrati con un piano ravvicinato mentre sono immobili su un carrello (dolly) in movimento, questo conferisce alla scena una componente onirica e di alienazione e noi spettatori ci sentiamo straniati.
In conclusione, possiamo affermare che si può non essere fan della personalità eccentrica di Spike Lee, ma resta indubbio il fatto che il suo cinema costituisca una delle espressioni più alte della settima arte contemporanea, afroamericana e non, e che molti registi della new wave hollywoodiana (basti pensare a Jordan Peele con “Us” e “Scappa- Get out”) attingano ai suoi lavori per perseguire il comando con cui inizia “Fa’ la cosa giusta”: svegliarci.

Studente di scienze della comunicazione dei media e cinema, appassionato di arte in tutte le sue forme specialmente la settima.