
Fino all’ultimo indizio (in originale The little things) è un film dalla lunga gestazione: è stato distribuito pochi mesi fa dopo quasi trent’anni dalla sua prima stesura, firmata da John Lee Hancock e inizialmente rivolta alla regia di Spielberg, il quale abbandonò il progetto affidandolo a Clint Eastwood. Neanche quest’ultimo vi si prestò a lungo e, dopo il passaggio da un regista all’altro, lo stesso Hancock decise infine di prendere in mano la regia del film. Il risultato è un poliziesco di stampo classico, con un vecchio detective caduto in seguito ad un errore, uno giovane ancora ignaro della spirale di ossessione in cui, prima o poi, cadono tutti, e un uomo sospettato di omicidi sparsi nel tempo, la cui colpevolezza è perennemente oggetto di dubbi.
Lo sceriffo Joe “Deeke” Deacon viene inviato a Los Angeles, dove vengono condotte delle indagini dal suo vecchio dipartimento su degli omicidi che richiamano un caso a cui aveva lavorato anni prima: inevitabilmente si fa coinvolgere e conduce le indagini insieme ad un giovane detective di successo, Jimmi Baxter, ancora inconsapevole del percorso buio, lontano dai propri ideali di giustizia, in cui verrà trascinato.
La prima impressione, nonché la più istintiva, che suscita il film è che si sia già visto qualcosa di molto simile negli anni novanta: nello specifico, è il caso di Seven di David Fincher, film di culto uscito ormai ventisei anni fa.
Rami Malek riveste un ruolo somigliante a quello che Brad Pitt interpretò nel 1995, sia nella caratterizzazione che nell’arco narrativo che, suo malgrado, si ritrova ad attraversare. Denzel Washington, come Morgan Freeman, è un poliziotto disilluso che ha visto il mondo per quello che è, rimanendone scottato, e che riconosce nel giovane collega un ideale ancora integro.
Il personaggio che si discosta maggiormente da quanto visto in Seven è comunque quello interpretato da Jared Leto: in questo caso, il presunto colpevole sarebbe mosso non da una fredda filosofia, bensì dal divertimento che prova di fronte alla confusione in cui getta i due poliziotti, stremati dall’apparente impossibilità di trovare delle prove a suo carico. L’aspetto sotto al quale si differenzia di più dal John Doe di Kevin Spacey, è tuttavia la mancanza di carisma e di confronti dialettici realmente stimolanti: fino alla parte finale, il suo ruolo consiste banalmente nell’infastidire Washington e Malek, risultando incapace di creare vera tensione.

L’unico personaggio del trio che si fa realmente apprezzare, sulla base di una caratterizzazione più efficace e dell’interpretazione di Denzel Washington, è a conti fatti lo sceriffo Deacon: la narrazione diventa intrigante nei momenti in cui viene indagato l’attaccamento morboso che ha con il proprio passato, mostrando una mente distrutta dal rimorso e che si sforza incessantemente di non cedere.
Non si comprende bene se sia crollato nel momento dello sbaglio o quando ha visto il proprio ideale di giustizia tradito dalla legge stessa come reazione all’accaduto. Ha capito di vivere in un mondo in cui il male, semplicemente esistendo, farà sempre decadere il concetto di bene. Dio è una favola e gli angeli custodi non esistono: esistono solo delle persone che hanno già immerso le mani nel fango, e che si impegneranno affinché quelle del prossimo si sporchino il meno possibile. E questo è quanto di più vicino si possa riconoscere al concetto di bene.
Per il resto, la narrazione prosegue distesa, senza annoiare e allo stesso tempo senza offrire momenti particolarmente avvincenti: non abbiamo a che fare con le macabre esposizioni di cadaveri allestite nei fatiscenti edifici di Seven – le scene degli omicidi ricordano piuttosto Zodiac, diretto nel 2007 sempre da Fincher – e l’indagine si presenta più verosimile, portando gradualmente ad un finale ad alta tensione in cui i protagonisti assumono finalmente delle posizioni forti, mentre le proprie angosce e il proprio sconforto li spingeranno all’angolo.
Si tratta in definitiva di un film sicuramente godibile, senza particolari pregi – eccezion fatta per l’interpretazione di Washington, la fotografia di Schwartzman e alcune scene di buona tensione – e senza problemi realmente gravosi. Sconta però una derivazione quasi pedissequa da Seven, tanto da rendersi sempre più evidente con l’avanzare del minutaggio, fino a pesare su un finale che altrimenti, o magari proprio per questo, sarebbe la parte più riuscita dell’intera pellicola: è troppo derivativo dal cinema di Fincher e ha troppo poco di proprio che sia interessante. Sembra, in un certo senso, esser caduto in quel tipico rapporto di conflittuale complicità tra vecchio e nuovo. Un po’ come tra lo sceriffo Deacon e il detective Baxter.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.