La vetta degli dei: l’uomo, la montagna e Jiro Taniguchi nell’animazione francese

Presentato a Cannes nel 2021, accolto poi nelle sale francesi, giapponesi e di altri paesi, arriva anche in Italia sul piccolo schermo, distribuito in streaming da Netflix, La vetta degli dei, film d’animazione che adatta il manga del maestro Jiro Taniguchi, ispirato a sua volta al romanzo di Yaku Yumemakura.

Con il suo capolavoro nel 1998, Taniguchi era tornato a raccontare la montagna, tema a lui caro e già trattato in lavori precedenti, quali Blanca, K. e Il cane degli dei, scolpendo le sue vette rocciose con un tratto scultoreo, risultato di un sapiente utilizzo dei retini, del tratteggio e dei chiaroscuri. La montagna ormai non era più una semplice ambientazione ma un personaggio, il giudice severo di tutti coloro che ritrovano se stessi nel fallimento e nella ripetizione dello stesso, spingendosi al limite.

Di produzione franco-lussemburghese (e non poteva essere altrimenti, alla luce del contributo di Taniguchi al fumetto francese ai tempi della collaborazione con Moebius), si tratta del primo lungometraggio per la regia di Patrick Imbert, il quale aveva diretto due episodi del film antologico Le gran méchant renard et autres contes nel 2017 e che già all’alba della sua carriera da regista si pone una sfida importante.

La vetta degli dei è infatti una delle opere di Taniguchi più proponibili ad un pubblico occidentale, sia per l’universalità che l’estremo fascino del racconto, ma la densità del materiale da adattare è notevole ed inevitabilmente si impone la necessità di ricorrere a compromessi e scorciatoie, finendo per semplificare il contenuto e sacrificare filosofie e ripetizioni che definivano maggiormente il viaggio dei protagonisti, ben più ampio e complesso.

Nonostante il racconto venga ridotto all’essenziale, il lungometraggio di Imbert trova nei suoi novantacinque minuti una propria autonomia rispetto al manga di riferimento e riesce a definirsi una propria identità filmica.

La narrazione procede tra il passato e il presente, calandosi rispettivamente nel documentario e nell’indagine sul dramma umano, per poi fondere il lirismo e l’impresa epica, qui contaminata da un’ossessione simile a quella descritta da Mellville.

In ciò la pellicola si concede alla contemplazione di paesaggi immensi, lunghi campi che, pur con un tratto minimalista, costringono la disperata fragilità umana dinnanzi alla montagna, sacra, inviolabile e mai indifferente. Come per Taniguchi, la vetta non è uno sfondo e risalta piuttosto rispetto alla rappresentazione bidimensionale e stilizzata dell’uomo.

L’intimità e il carattere contemplativo della storia sono resi inoltre da una regia sempre posata e da una colonna sonora mai invadente, che predilige una grande cura del comparto sonoro, in un film che viene raccontato dai rumori delle piccozze, dal vento, dalla neve e dalle altre voci della montagna.

Rimane purtroppo ingabbiato nel piccolo schermo quando avrebbe beneficiato dalla visione in sala, potendo esprimere pienamente il proprio potenziale lirico e suggestivo. Ripropone laddove è possibile la potenza scenica delle tavole del celebre mangaka e l’intensità della sua narrazione, nonostante qui sia ben più contenuta.

Conferma comunque l’ottimo gusto francese per l’animazione, sia nella tecnica, al netto di sporadici cali di frame-rate, sia nella sensibilità con cui viene affrontato questo linguaggio e non lascia indifferenti, considerato anche a fianco di altri prodotti d’animazione che hanno visto la luce nel 2021, per lo più dominato dalla Disney e dalla Pixar ma che, attraverso i festival, ha aperto la strada a film che verranno distribuiti nell’anno in corso, tra cui Inu-o di Yuasa e Belle di Hosoda.

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