
L’idea è semplice: due contadini adottano un bambina per metà agnello. L’attrazione morbosa è istintiva, ma le promesse di inquietudine concedono spazio ad un racconto bucolico, che ben poco ha di un tipico film dell’orrore, perché Lamb è un dramma familiare che procede con toni pieni di rimpianto e di una nostalgia elegiaca.
L’elegia
Il bambino-agnello è una soluzione grottesca per rendere più estrema la veste, portata ai limiti di una tragedia greca: è il simulacro rimasto da un lutto, un mostro a tutti gli effetti, almeno seguendo l’etimologia del termine risalendo al latino monstrum, ossia un prodigio. O magari un’altra disgrazia mascherata da miracolo.
Perché l’opera d’esordio di Valdimar Johannsson, presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard e disponibile nelle sale italiane dal 31 marzo, parla del disperato bisogno di una seconda occasione, anche se questa seconda occasione ha una data di scadenza: rivivere qualcosa che è ormai perduto significa rivivere anche il momento della perdita, fino al silenzioso abbandono che ne consegue.

La tragedia
La creatura, nata da un concepimento impossibile, incarna la comunione tra l’uomo e l’ambiente in cui vive, e in quanto tale riporta l’armonia nelle vite dei due protagonisti (Noomi Rapace e Hilmir Snær Guðnason), e chiunque metta in discussione questo equilibrio ritrovato deve essere rimosso dal quadro con fermezza, fosse anche la natura stessa. La natura però, onnipresente eppure invisibile e minacciosa osservatrice della vita dell’uomo, torna inevitabilmente a chiedere pegno.
Le poche scene dalle venature timidamente orrorifiche servono dunque a ricordare che la scadenza si avvicina e lo spettatore, per quanto sia naturale provare affetto per Ada (questo il nome della creatura), osserva comunque la vita della famiglia a distanza di sicurezza, cogliendo il disagio e la fragilità di questa armonia, adottando piuttosto lo sguardo degli animali, gli unici ad intravedere l’inevitabile e dolorosa conclusione verso cui tutto volge.
Conclusioni
L’unica nota stonata della pellicola risale ad un atteggiamento che molto spesso è possibile riconoscere alle opere prime di registi che vogliono impegnarsi in un certo tipo di cinema: si parla poco e, per quanto le parole non siano probabilmente fondamentali per raccontare Lamb, la mancanza di comunicazione verbale sembra soltanto voler ostentare un distacco e un’impenetrabilità troppo spesso ricercati fino allo stucchevole in film cosiddetti “intellettuali” o “da festival”, peccando in conclusione di un ermetismo un po’ esibito.
Il risultato è comunque un film ricco di idee e di suggestioni, che muove da un’idea estrema tanto nella sua semplicità quanto nelle sue implicazioni espressive. Già inserito nel meglio dell’anno scorso (qui per leggere l’articolo), Lamb è una perla tutta da scoprire e una delle uscite nelle nostre sale più interessanti di questa stagione cinematografica.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.