
Si può dire che con Last night in Soho Edgar Wright sia uscito dalla sua zona di comfort. È però corretto solo in parte perché, se da un lato già con Baby Driver aveva segnato un allontanamento dalla prima fase della sua filmografia, dall’altro sono riconoscibili sentimenti già espressi negli altri suoi lavori. In particolare, oltre ad una contaminazione horrorifica ricorrente nei film del regista britannico (qui in misura maggiore, tanto da determinare un quasi totale abbandono dell’ironia), il punto di contatto fondamentale con la celebre trilogia del cornetto è il tema della nostalgia.
Già centrale in The World’s End, si parla di uno stato d’animo che corrisponde ad un rimpianto per tempi o luoghi passati, un senso di appartenenza non soddisfatto. Così nell’euforica ricerca di un proprio posto nel mondo, la Eloise di Thomasin McKenzie finisce per cercarlo in una Londra che non appartiene al presente, quanto piuttosto ad un passato le cui memorie indelebili, incarnate da streghe e fantasmi, si agitano in una danza di abusi e violenze, miseria e disperazione. Last night in Soho si presenta come un Midnight in Paris declinato in chiave horror, in cui una nostalgia malriposta risulta in una lenta e disperata discesa nel delirio.
La disillusione non consuma solo per il presente e le speranze future, ma viene attuata una demitizzazione di un passato idealizzato: il sogno diventa incubo, la curiosità ossessione, e il monolocale di Soho si rivela una gabbia che si stringe inesorabilmente attorno alla protagonista, mente Wright fa propria l’esperienza di Polanski in Repulsion e, in maniera ancor più evidente – quasi pedissequamente – L’inquilino del terzo piano.

Questo esperimento con il genere horror rappresenta un momento di grande maturazione per la tecnica registica di Edgar Wright, che si impone in vorticosi piani sequenza e brillanti idee sceniche in cui si attua un costante e ricorrente scambio di ruoli, il tutto impreziosito per altro dalle prove attoriali di alto livello di Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy.
Come già anche in Baby Driver e Scott Pilgrim vs the World, la musica, dall’uso quasi interamente diegetico e in un perfetto connubio tra la dinamicità musicale e l’alternanza dei toni della narrazione, torna ad essere parte attiva nell’avanzamento della trama, affermandosi come un’estensione della persona della protagonista e lo strumento chiave dell’evasione da una realtà aliena.
L’aspetto tecnico che più salta all’occhio è però la veste estetica del film: vengono richiamate a gran voce le soluzioni cromatiche dal forte valore simbolico di The Neon Demon e, ancor prima, del capostipite del tanto omaggiato cinema di streghe, il Suspiria di Argento, con una gestione dell’illuminazione in cui le luci dai colori ipersaturi evocano figure eteree e deformano i corpi rendendoli spettrali (similmente a quanto fatto da Hitchcock in Vertigo – la donna che visse due volte).
Non mancando di alcune superficialità nella sceneggiatura, seppur non imperdonabili, il film commette tuttavia un passo falso proprio nella chiusura, risolvendosi in un finale distensivo che, in quanto tale, era sicuramente necessario dopo l’incessante angoscia delle quasi due ore precedenti, ma che si macchia di leziosità e di un atteggiamento inverosimilmente apologetico e conciliante, in un lieto fine senza mezzi termini che non percepisce alcuna conseguenza degli orrori vissuti e che meglio si adatterebbe ad una favola.

Last night in Soho è una mosca bianca nella filmografia di Edgar Wright, il quale continua a dare conferme del proprio talento da regista nel mentre che si approccia in maniera diretta al genere horror con un racconto che si sviluppa tra la cattiveria e la disperazione, affondando le proprie radici nella tradizione del genere, passando da Polanski ad Argento, da Refn al Guillermo del Toro di Crimson Peak.
Parte dai classici, riprendendone i modelli narrativi senza apportare significative innovazioni, ma rendendoli ancora una volta attuali e piegandoli ad una narrazione angosciante che muove i propri passi sul sempre più labile confine tra l’incubo del passato e la realtà presente.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.