Malignant: la nuova visione dell’orrore di James Wan

Malignant segna il ritorno di James Wan al genere horror dopo cinque anni da The Conjuring – il caso Enfield, arco di tempo in cui ha avuto modo di misurarsi con il genere action in prove discutibili, quali Aquaman, di cui ad ora è in produzione il sequel, e il settimo capitolo della saga di Fast & Furios.

Fa piacere notare innanzitutto, nonostante gli anni passati dal suo ultimo approccio al genere, come la cifra stilistica di Wan sia rimasta invariata e, ancor di più, trovarla affinata in questo suo ultimo lavoro, per mezzo di idee registiche non nuove al cineasta, ma che qui si concedono dei virtuosismi – in particolare nella gestione degli ambienti, che in una sequenza specifica rimanda la memoria a Hereditary di Ari Aster – che non si limitano a ribadirne le già indiscusse qualità, ma contribuiscono a restituire un ritmo sostenuto e ad amplificare la tensione.

Anche in Malignant si sente il forte debito di James Wan nei confronti della tradizione dell’horror italiano propria degli anni ’70 e ’80, richiamando a gran voce i nomi di Mario Bava e Dario Argento, che si parli della rappresentazione dell’orrore, della funzione della colonna sonora (si segnala la traccia musicale che reinterpreta in chiave horror Where is my mind dei Pixies), o della presenza scenica dell’assassino. Quanto a quest’ultimo, il riferimento è da ricondurre in particolare ad Argento, sia per la trama che si articola attorno a degli omicidi efferati e un’indagine che lascia ampio spazio a interventi sovrannaturali (è notevole in tal senso l’influenza di Phenomena), sia per un assassino che, nella sua presentazione estetica e nelle modalità brutali delle proprie uccisioni, non manca di ricordare alcune tra le più iconiche creature di Argento.

Inoltre, proprio questo forte debito culturale consente a Wan di mettere in scena un grottesco estremo, senza risultare nel ridicolo e stimolando piuttosto il dovuto fascino morboso per le atrocità mostrate a schermo. Nondimeno, Malignant si inserisce nel sottogenere del body horror, pur contemplando la solita componente onirica – il modo in cui il regista malese trasporta le abitazioni dei suoi protagonisti, o anche città intere, in una dimensione estranea adottando una fotografia più livida o banalmente con l’utilizzo della nebbia, ricorda da sempre l’esperienza di Mario Bava – che in questo caso viene contaminata da un’altra di carattere poliziesco, come se venisse operata una commistione tra gli elementi principali dei passati Insidious e Saw.

Al netto di alcuni difetti di relativamente poco peso, quali la forzatura di determinate situazioni, la caratterizzazione essenziale dei personaggi e meramente funzionale all’avanzamento della trama, e una componente investigativa veramente blanda (tutti elementi pressoché caratteristici della tradizione di riferimento), Malignant sconta di esser stato distribuito al pubblico due anni dopo The Lighthouse e Midsommar: Robert Eggers e Ari Aster, anche con gli altri rispettivi lavori, ovvero The Witch ed Hereditary, sembravano aver fissato dei nuovi standard per il genere horror nella nostra contemporaneità, aprendolo ad inedite possibilità esplorative. In questo panorama, l’ultimo film di James Wan, per quanto indubbiamente pregevole e proprio in virtù della sua indiscussa impronta autoriale, rappresenta un passo indietro rispetto ai modelli fissati da Eggers e Aster, soffrendo di alcuni cliché e banalità ormai date per superate.

Ciò non rende comunque questa pellicola meno meritevole, che si avvale di un ritmo incalzante, idee registiche sorprendenti e della forte consapevolezza culturale di Wan, che non manca mai di omaggiare e riproporre un orrore cinematografico di tempi passati.

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