
Pacifiction è il film di Albert Serra con la traccia narrativa più forte: trattiene l’essiccazione del racconto inseguita nei precedenti lavori e aspetta il finale per condurla alle estreme conseguenze. Non abbiamo stavolta una situazione autonoma rispetto alla quale lo spettatore si pone come testimone discreto (come ne La morte di Luigi XIV o Liberté), ma più situazioni che delineano un contesto. Cionondimeno, Serra continua a respingere il principio di finalità, di funzionalità.
Realtà e spettacolo
La crasi su cui gioca il titolo è già manifesto del senso dell’opera. In una Tahiti minacciata dalla possibile ripresa di test nucleari, Benoît Magimel, alto commissario, si comporta allo stesso tempo da regista stanco e attore cerimonioso, una maschera che fa di tutto per imporre un ordine agli eventi e rafforzare quella che ad ora è solo un’illusione di pace, la calma: la calma deve diventare pace, l’apparenza deve diventare fatto. La realtà si evolve così secondo necessità, secondo finalità appunto, assumendo i connotati di una fiction, perché solo in quanto tale può consolidare un proprio equilibrio.
Lo spettacolo invece accoglie quello che la realtà rifiuta o si sforza di trattenere: lo spettacolo sa che serve la violenza e può permettersi di soddisfare tale bisogno, sa restituire la brutalità, mentre la realtà riduce la minaccia effettiva a illusione della stessa. Si avvista un sottomarino, ma il momento successivo non c’è più. Probabilmente è già pronto al bombardamento, ma forse sono solo voci. Non si riesce ad inquadrare il pericolo, a comprendere quale sia la sua portata, quanto sia concreto e imminente: non si sa se si stia manifestando per quel che è o se sia una semplice apparenza.

La soluzione
Si crea un corto circuito: nella realtà le immagini si camuffano, riducendosi ad apparenze, mentre nello spettacolo trovano sfogo, manifestandosi per ciò che sono. La realtà si comporta come fiction, lo spettacolo come realtà completa in se stessa.
Nel finale trionfa la stanchezza su Benoît Magimel, il quale smette di essere regista (colui che si serve delle immagini) e accetta di essere attore (lo strumento delle immagini). La narrazione si dissolve e con essa la necessità di rappresentazione: trionfa l’abbandono alle immagini, le quali affermano in ultima battuta la propria autonomia, funerea e spettrale, come per Cronenberg in Crimes of the Future (anch’esso in concorso alla 75ª edizione del Festival di Cannes).
L’inevitabile risultato è l’apocalisse: arrivati al finale, non si risolve niente nella realtà, ostacolata dalle maschere cui si affida goffamente e ormai incapace di confrontarsi con i fenomeni, poiché in balia della necessità di apparenza. La conclusione cui giunge Serra, come sempre nel suo cinema, è che le immagini, da strumento della narrazione, si affermano come narrazione stessa.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.