Parasite: una critica sociale

Il parassitismo è un fenomeno sociale. Questa è l’osservazione che ha guidato Bong Joon-ho nella realizzazione della sua opera magna: Parasite. Si, perché questo gioiello coreano è ben più di un thriller affascinante e ben scritto, poiché rappresenta la nuova frontiera della critica sociale. Non basta più comunicare in modo diretto le proprie opinioni, soprattutto in ambito cinematografico. Un vero artista, infatti, deve adeguarsi ai tempi che corrono, altrimenti corre il rischio di diventare inattuale. Quali sono però i confini dell’attualità? Come fa un regista a realizzare un film culturalmente valido? Sicuramente non basta creare una bella storia, perché “il bello” è un concetto volubile. La risposta è abbastanza semplice, ma non banale: un regista deve studiare gli interessi del pubblico a cui vuole comunicare, comprendendolo e mai assecondandolo. Bong Joon-ho allora, consapevole dell’aura di passività che aleggia sulle nuove generazioni, decide di scrivere una sceneggiatura che fa del coinvolgimento un cavallo di battaglia. Sfruttando quel famoso “effetto iceberg” di hemingwayana memoria, in base al quale in un’opera d’arte esiste una parte “apparente” e una parte “sommersa”, il regista crea un mondo stratificato, semplice e profondo al tempo stesso: in poche parole, crea un racconto efficace. In questa realtà sorprendente si sviluppa l’interazione tra due famiglie: i poveri Kim e i ricchi Park. Quello che, tuttavia, potrebbe apparire come un semplice incontro tra esseri umani, ben presto rivela i caratteri artistici di un autore che vuole sperimentare l’interazione tra due ceti differenti.  La divisione sociale è infatti sempre più netta in Corea del Sud e la famigerata meritocrazia sembra non garantire più nessuno: esiste il mondo dell’opulenza ed esiste il mondo della povertà, ma non un ponte che funga da collegamento. Il parassitismo diventa allora il solo modo per migliorare la propria esistenza, per far valere la propria persona in una realtà che troppo spesso sembra sorda. Così almeno ragionano i Kim, una modesta famiglia di Seul che sostenta se stessa attraverso piccoli lavoretti vivendo alla giornata. La miseria però comincia a farsi sentire tra i protagonisti e la consapevolezza di valere qualcosa non fa che aumentare il sentimento di repressione. Tutti i membri della famiglia Kim, infatti, come si scoprirà durante il racconto, sono dotati di talenti particolari, ma non hanno la possibilità di “ufficializzarlo”: Ki-woo è buon insegnante, Ki-jung sa disegnare molto bene, Chung-sook è una grande cuoca e Ki-taek guida in maniera unica. Queste persone sono una miniera di potenzialità che non ha le possibilità di gridare al mondo di valere qualcosa. Proprio questo spinge la bisognosa famiglia di Seul a intrufolarsi tra i Park: un bisogno incontrastabile di sopravvivenza che creerà una parabola dai contorni epici. Una struttura che quasi suona come un avvertimento e uno stimolo per ampliare i diritti sociali. I Kim bussano alla porta del garantismo sociale, e si fanno anche sentire, ma nessuno sembra ascoltarli. Dall’altra parte del muro ci sono invece i Park, i quali vivono la loro giornata in un mondo che si distingue per eleganza, ma sordo alle richieste di chi chiede aiuto. Cosa permette però ai Kim di aprire questa porta? Come riescono a entrare scrupolosamente in una realtà tanto lontana dalla loro? La risposta è alquanto bizzarra: non fanno nulla di particolare. Certo, l’intera azione è frutto di un piano, ma quest’ultimo non è realistico e nemmeno ben accurato. Ciò che permette realmente l’ingresso dei Kim nel mondo dell’alta borghesia è l’indifferenza. Tutti i membri della famiglia Park, infatti, si mostrano ingenui dinanzi l’assurdità degli eventi. Perché però si fanno abbindolare così facilmente? Perché sono chiusi in loro stessi e non hanno una mente abbastanza aperta per comprendere la linea sottile che divide la forma dalla sostanza. Così l’ingenua Yeon-kyo, moglie del signor Park e madre devota, assiste inconsapevole ai mutamenti della sua stessa famiglia, troppo chiusa nella sua realtà per comprendere la pericolosità della sua superficiale accoglienza. Anche i piani più geniali, tuttavia, sono soggetti alla volontà della dea fortuna: tutto è un caso. La costante dell’imprevedibilità è destinata a stravolgere la struttura del racconto e anche, forse, della società. Per Bong Joon Ho quindi ha poco senso costruire un modello di vita. “Lavora duro e raggiungerai i tuoi obiettivi” dicono gli americani, ma il regista coreano non è d’accordo. Come il piano dei Kim è destinato ad andare in frantumi, anche alla scalata sociale è riservato lo stesso destino: gli eventi sono imprevedibili e il successo non deriva dallo stacanovismo. La critica del regista coreano, di conseguenza, vuole mettere in luce gli opposti che governano questa realtà, attraverso un racconto che fa del contrasto una componente fondamentale: ricchezza e povertà, salita e discesa, luce e buio. Come una bilancia, però, Parasite mantiene in equilibrio la polarizzazione dello stesso racconto, sfruttando le componenti fondamentali della settima arte e facendole avanzare di pari passo, attraverso un lavoro coordinato che quasi si avvicina alla musica: tutti gli strumenti suonano insieme e la melodia è straordinaria.

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