Quando l’algoritmo mi ha consigliato “Love” e non me ne sono pentita

Ho iniziato Love per noia, ancora triste per la fine di Community e con sul groppone l’ennesimo rewatch di The O.C. L’algoritmo mi conosce, mi ha studiato bene e mi piazza dunque questa comedy popma un po’ punk tra i consigliati per mesi; quando cedo, alla fine, ringrazio. 

La serie non è recentissima; scaturisce dalla penna di Judd Apatow, sceneggiatore tra le altre cose, del The Ben Stiller Show e regista di 40 anni vergine, Paul Rust, su cui avremo modo di tornare, e la scrittrice Lesley Arfin nel 2016. L’ultima di tre stagioni, la terza, si è conclusa nel 2018. In Italia non se ne è parlato molto, e ora vi spiego perché abbiamo sbagliato e come recuperare. 

La prima volta che incontriamo insieme i due protagonisti, Mickey (Gillian Jacobs) e Gus (Paul Rust) siamo in un supermercato e lei ha dimenticato i soldi. Non si conoscono, ma noi li abbiamo già visti rapidamente agire nelle rispettive vite; sono entrambi sulla trentina, lavorano sodo e sono sfortunati in amore. Ci siamo fatti un’idea di loro e questo inizio sa di Woody Allen e di strani imbarazzi. Un po’ anche di sano cliché americano. Per fortuna poi iniziano a parlare, a guardarsi e non capirsi. Andiamo avanti per qualche episodio con la nostra idea preconfezionata da decenni di serie tv e film in cui i ruoli sono ben definiti, c’è un personaggio di cui prendere le parti e uno che in fondo si sta comportando male, le cose seguono un ordine fisso. Anni e anni di screenplay scritti prendendo le misure del mondo commerciale. 

Mickey (Gillian Jacobs) e Gus (Paul Rust) nel primo episodio della serie

Love è abile nello scherzare con tutto questo.

I protagonisti

Mickey lavora in una radio ed è molto in gamba, nonostante debba scontrarsi con un collega fintamente saggio e semplicemente maschilista, un bravissimo Brett Gelman (lo avete visto molto probabilmente in Fleabag e Stranger Things), riesce a far valere le sue idee e a guadagnarsi una posizione di responsabilità, mentre Gus fa da tutor ai giovani attori impegnati alla registrazione di Witchita, uno young adult fittizio che potrebbe essere Riverdale o Teen Wolf, per i nostalgici, con il sogno di sedere al tavolo degli autori degli episodi e di produrre il suo film. 

L’immagine restituita del mondo cinematografico è impietosa; ci porta dietro le quinte, tra i giochi di potere e gli infiniti calcoli che sottendono alla creazione di un prodotto che funzioni in tv e su internet. Non è la prima serie a mostrarci le prove, le problematiche dei tecnici di regia, i sogni dei giovani autori (Jane the Virgin duplica la prospettiva fotografando la realtà sia dal punto di vista della protagonista che quello del padre, attore e star del set), ma lo fa con una pragmaticità estranea ai prodotti Netflix. Bastano poche inquadrature, un’espressione frustrata.

A Mickey questo non interessa; è un’alcolista, si definisce incapace di stare da sola, senza una relazione. Respinge Gus per questo. Non vuole trascinare il ragazzo, tratteggiato come lei lo vede per quasi tutta la prima stagione (impacciato nerd da “portare sulla cattiva strada”- glielo dice ridendo nel corso del primo episodio) nel caos che per lei rappresentano le relazioni interpersonali.

Parlare d’amore senza semplificazioni

La loro storia d’amore è quindi molto lenta, segnata dai ripensamenti di entrambi, da scatti di rabbia e silenzi raccontati superbamente; sfido a trovare una serie che sia scesa a patti così bene con il mondo dei social e con quello che rappresentano per noi oggi quando frequentiamo qualcuno. Il realismo è il punto forte della narrazione; Mickey e Gus sono persone vere, con cui potremmo fare amicizia oppure potremmo odiare. Qualcuno ci vedrà dentro la propria relazione; complicata, spesso ironica, ma anche noiosa e ripetitiva, incastrata come quella di tutti nelle difficoltà, le amicizie e le occupazioni di tutti i giorni. Sono pochi gli episodi in cui i due protagonisti possono godersi in pace il loro esistere. Perlopiù assistiamo a momenti di liberazione dell’una o dell’altro e a dialoghi che non cedono mai alla banalità morale da rom-com. 

Love non ci vuole insegnare niente, vuole solo mostrarci cosa può significare avere 30 anni, ancora tanti sogni inespressi ed una gran voglia di mettersi in gioco a tutti i costi. Non si tirano indietro, mettono se stessi in tutto quello che fanno. 

Ci sono un paio di dialoghi, le cui parti di Gillian Jacobs andrebbero trascritte e fatte leggere a tutti i ragazzi che vivono oggi la loro adolescenza (in particolare S1E9), è molto quello che possiamo imparare sulle dinamiche, complicate e spesso deludenti, sottese alle scelte, anche impulsive, di cui sono fatti i rapporti umani. 

La musica

La colonna sonora ci viene incontro; a partire da Let’s Be Friends che vediamo cantata e ballata dai protagonisti, ci fanno compagnia Beck, i Bleachers e tantissime band underground e non. Nessun ammiccare forzato e caratterizzante che tanto va di moda nei teen drama di oggi (Everything Sucks e l’ossessione per gli Oasis, poco autentica o la doccia indie in The end of the f***ing world), sentiamo quello che piace ai protagonisti, ma anche il pop che passa in radio. 

La passione per la musica di Gus, tra l’altro, ha appigli nella vita reale, in quanto l’attore è anche cantante e musicista della band Don’t Stop or We’ll Die, che ha recentemente rilasciato un album, SONG-A-WEEK Volume One: Bloom of the Goji (molto consigliato). 

Diventare (e scoprirsi) grandi

La personalità di Rust emerge con decisione soprattutto nella terza stagione, dove ai temi dell’amore e della carriera si aggiunge quello del rapporto con la famiglia d’origine; conflittuale per Mickey e il padre e apparentemente perfetto per Gus e i suoi, molti, parenti. 

Ma l’età adulta è anche scendere a patti con chi si è e non con chi si doveva diventare quando si è partiti da casa con un sogno; non aver raggiunto ancora il successo non è il vero problema, il vero problema è accettare i propri cambiamenti, gli aggiustamenti improvvisi di prospettiva. 

Love ci racconta anche questo e lo fa con una rapidità invidiabile e con dovizia di particolari. Se vi è piaciuto Please Like me, altro cult tra i comedy- drama in cui autore e attore protagonista coincidono, non rimarrete delusi. Nemmeno se avete visto Community e il sarcasmo di Gillian Jacobs vi ha conquistato. O se vi piace la metanarrazione (Gus al bar con gli amici si chiede come funzioni l’esistenza, nei film e nelle serie, di film e personaggi famosi; Se in x, esiste il film y e poi appare l’attore di y, che succede?- vedrete anche questo). 

Unico punto debole? Il titolo. Certamente evocativo del tema a cui ruota attorno la vicenda, ma riduttivo e poco adatto a rimanere impresso ai fruitori. 

Ultimo consiglio spassionato: gustatevela in lingua originale, non c’è paragone con le vere voci. 

Per il resto, la dolcezza e il realismo di questa quasi miniserie, vi rimarranno addosso. 

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