
Persino Wes Anderson ha detto che il suo nuovo film: The French Dispatch non sarebbe stato facile da spiegare; e in effetti non lo è, sarebbe inutile cercare di spiegare un film fatto di una serie vertiginosa di minuscole parti ronzanti che si intersecano e avanzano senza sosta. Ecco la nostra recensione di The French Dispatch.

La trama
Il film può essere difficile da spiegare ma è piacevole da guardare, con il suo ritmo frenetico che non ti farà nemmeno fermare a pensare a quello che sta succedendo.
The French Dispatch è il decimo film di Wes Anderson ed è stato definito come una lettera d’amore ai giornalisti e al giornalismo. Racconta, infatti, di vicende e personaggi legati alla redazione parigina di un quotidiano. La storia segue tre distinte linee narrative che danno vita a una raccolta di racconti, pubblicata dal quotidiano nel corso di alcuni decenni del XX secolo.
Quando però il direttore del giornale muore, i redattori decidono di pubblicare un numero commemorativo, che raccolga tutti gli articoli di successo che il quotidiano ha pubblicato negli ultimi anni. Tra questi, il film approfondisce tre episodi in particolare: il rapimento di uno chef, un artista condannato al carcere a vita per un duplice omicidio e un reportage sui moti studenteschi del ’68.

La recensione di The French Dispatch
La struttura del film è quella di un numero della rivista The New Yorker, dove si entra letteralmente nelle pagine e si “leggono” tre storie separate. Ogni storia è raccontata con il suo stile, quello di Anderson, che usa animazione, grafica, nature morte, giochi di prospettive e panorami come solo lui sa fare. Pochissimi cineasti hanno un’impronta così distinta come quella di Wes Anderson (è diventata così personale che esiste persino un intero libro intitolato Accidentally Wes Anderson, composto da fotografie di edifici e paesaggi di tutto il mondo che assomigliano agli scatti di Anderson).
Gli oggetti con lui si trasformano in magici talismani, qualsiasi oggetto se inserito nel contesto della visione del regista, ormai famosa in tutto il mondo, assume un significato diverso. I suoi soggetti brillano per i dettagli minuziosi che lui gli assegna, si prende cura di ognuno di loro.
Il feticismo di Anderson è così evidente nel suo lavoro che rende il tutto un po’ “snervante” in un modo davvero meraviglioso. C’è una linea sottile tra l’ossessione e il feticismo, ma nell’arte quella linea sottile non ha molta importanza, soprattutto per registi come questo.
È come se il regista qui avesse una certa malinconia per mondi immaginari, per una vita e per i ritmi di un tempo che non ha mai nemmeno vissuto. La cosa più interessante di tutto questo però, in questo film come in tutti gli altri, è che Anderson con la sua impronta digitale e la sua ossessione riesce ad immergerci in quel mondo di cui ha tanta nostalgia, e a farci ammirare e cogliere a pieno la poesia in esso contenuta.
