Rifkin’s Festival: Analisi dell’ultimo film di Woody Allen

locandina del film

Io preferisco qualsiasi cosa alla realtà, non solo il cinema. Io non sono mai stato un grande fan della realtà

-Woody Allen

Sono molti gli aggettivi che si potrebbero affibbiare a Woody Allen: genio, pessimista, cinico, donnaiolo, creativo, eppure c’è un aggettivo che continua ad essere estraneo a lui e al suo cinema: quello di “vecchio”.

Il cineasta newyorkese ha infatti raggiunto la veneranda età di 85 anni e, nonostante continui a battere a macchina tutte le sue sceneggiature, il suo cinema è ancora affascinante, anche se attraversato dalle rughe e rifkin’s festival ne è l’esemplificazione visuale più chiarificatrice.

Il quarantanovesimo film di Woody Allen è la storia di Mort Rifkin (Wallace Shawn), un professore di cinema, amante dei classici europei, ingabbiato da sua moglie Sue (Gina Gershon) a presenziare al festival del cinema di San Sebastien. Durante il soggiorno nella dedalica San Sebastien, il nostro Mort vedrà il suo matrimonio sgretolarsi e la sua ipocondria acuirsi a tal punto da farsi visitare dalla dottoressa Jo (Elena Anaya), anche lei alla fine della relazione con il proprio compagno.

La prima precisazione da fare è che l’interesse di Woody Allen per la trama del film è minimo, il festival non è nient’altro che il Macguffin hitchcockiano, il pretesto che fa partire il racconto, che viene sviscerato in medias res sotto forma di dialogo durante una seduta nello studio dello psicologo di Mort.

Chi conosce i meccanismi che dominano le pellicole di Allen sa benissimo cosa aspettarsi dai suoi film e avere presente la sua cifra stilistica è un presupposto che sicuramente permette di apprezzare e godere al meglio di questa esperienza visiva.

Quello che rende Rifkin’s Festival un magnifico film, al di là dello schema principale che ormai non è più originale, è come Woody Allen ha scelto di sviluppare i pensieri e i sogni di Mort, manifestando e palesando in essi tutto il suo amore per il cinema.

Da quando arriva in Hotel infatti, il nostro protagonista è tormentato da incubi e visioni a occhi aperti che distorcono la sua realtà e la inseriscono all’interno delle pellicole che ama. Dunque, è questo l’elemento originale del film: Allen utilizza il medium cinematografico per compiere una (psico)analisi del protagonista, la cui passione cinefila si è sedimentata talmente tanto a livello inconscio da non permettergli di distinguere più la dimensione onirica da quella filmica, il sogno dalla realtà, il cinema dalla vita. 

Una delle rivoluzioni in ambito visuale, riconosciuto alla settima arte è quello di aver abbattuto la distanza fissa tra l’opera e il fruitore, questo perché la macchina da presa guida il nostro occhio all’interno della narrazione. Allen amplifica questo discorso e pone, non solo l’occhio, ma tutto il corpo di un appassionato di cinema all’interno di un mondo che ha sempre vissuto solo con uno dei cinque sensi: la vista.

Così Mort si ritroverà all’interno di “Quarto Potere” di Orson Welles, passerà per la stagione della Nouvelle Vague con “Jules e Jim” di Truffaut e “Fino all’ultimo respiro” di Godard, resterà bloccato come i borghesi de “L’angelo sterminatore” di Bunuel e giocherà a scacchi con la morte come ne “Il settimo sigillo”di Bergman.

Queste sono solo alcune delle pellicole che inframmezzeranno la linearità della narrazione. L’utilizzo di queste opere non è una semplice citazione, poiché Allen non si limita a mostrarle in modo diegetico ma le mette in scena con uno sguardo personale. Avendo raggiunto ormai una maturità artistica consolidata, Allen riesce a sfruttare al meglio il mezzo cinematografico che qui è visto come una via di fuga dalla realtà, la cosa non deve stupire, basti pensare che il regista stesso ha affermato che anche da ragazzino il cinema era una fuga, in quanto era solito frequentarlo la mattina al posto della scuola.

Si perché qualunque cosa è migliore della realtà per Allen, Wallace Shawn quando non vive nelle sue pellicole è il classico anziano burbero, pieno di cinismo che, arrivato alla fine della vita deve stilare un bilancio delle  esperienze e dei rimorsi che lo accompagnano; primo tra tutti la stesura di un romanzo, che ha scelto di scrivere lasciando cosi la cattedra di professore di cinema che lo rendeva felice. Anche il matrimonio con Sue, una donna più giovane di lui,  si trascina a stento e dall’inizio del film non da mai l’idea di un matrimonio stabile ma sempre sul punto di implodere.

Il personaggio interpretato da Gina Gershon è una donna in carriera, addetta stampa del giovane regista Philippe di cui è innamorata. Philippe (Louis Garrel) invece è un regista praticamente agli antipodi con Allen, preferisce il cinema Hollywoodiano di Capra, Hawks, Ford a quello europeo di Bergman, Fellini e Godard (lo stesso Garrel ha interpretato Godard nel film “il mio Godard”) e ha un’arroganza tale da voler girare addirittura un remake de “A bout le soufle”. Il ritratto che Allen fa del personaggio di Philippe è spietato: lo considera un fortunato a cui piace stare più davanti le telecamere che dietro la macchina da presa. Non mancano le battute tipiche delle sceneggiature del cineasta newyorkese; in una scena Mort e Philippe dialogano e quest’ultimo afferma di voler fare un film sulla pace tra israeliani e palestinesi, la risposta di Mort non si fa attendere e afferma: “Ah, quindi vuole darsi alla fantascienza”.

Rifkin’s festival nell’economia della filmografia di Woody Allen sancisce un ulteriore sodalizio, quello con il DOP Vittorio Storaro, i due sono giunti ormai alla quarta collaborazione cinematografica consecutiva. L’importanza del direttore della fotografia, per Allen, è sempre stato dichiarato, in quanto, grazie a questa figura, ha potuto perfezionare il suo cine-occhio. Rifkin’s festival è forse la migliore espressione di questo sodalizio tra due menti geniali, tutto il film ha transizioni da colori accesi e caldi al bianco e nero in una maniera cosi fiabesca e alienante che non servirebbero ulteriori dialoghi tra i personaggi per impreziosire la pellicola: è la macchina da presa che parla per loro.

I passaggi dalla realtà, alla realtà del film sono tutti anticipati da qualcosa: una panoramica lenta, uno stacco di montaggio netto, una desaturazione graduale e come se non bastasse, il tutto è supportato da un cambio di formato, si passa cosi dal 16:9 al 4:3 che ha dominato il cinema classico.

Altro aspetto che va preso in considerazione quando si analizza un Allen, è l’ambiente. San Sebastien si presenta come piccola ma caotica, un insieme di curve, mercatini, scogliere, un paese arroccato in cui è facile perdersi per poi ritrovarsi; a San Sebastien si contrappone invece la totemica stanza dello psicologo, inquadrata con un grandangolo che distorce il perimetro della stanza conferendogli i tratti tipici di una scatola cranica, infatti da quella stanza prenderà vita il racconto, i sogni, le paure, le speranza di Mort/Allen.

Una famosa citazione di Alfred Hitchcock recita : “il cinema è la vita senza le parti noiose”. Allen vive il cinema proprio in questo modo: come un antidoto naturale alla futilità dell’esistenza, il rifugiarsi e fuggire in altri mondi è conseguenza di questa sua idiosincrasia verso la realtà. In molti film Allen utilizzava il cinema europeo per ri-trovarsi, in Rifkin’s festival non si può stabilire con certezza se alla fine il protagonista riesca in questo, l’unica certezza che lo continuerà ad accompagnare è quella di quanto possa essere bello perdersi nel cinema e con il cinema.

Analisi di tutte le citazioni di Rifkin’s Festival:

La prima citazione palese che Allen mette in scena è quella di “Citizen Kane” da noi conosciuto come “Quarto Potere” di Orson Welles, questa sarà l’unica pellicola hollywoodiana presente nel film.

Durante questo primo delirio onirico, il nostro Mort entra nella pellicola più famosa di Orson Welles e compie gli stessi movimenti di macchina: primo piano dell’oggetto all’interno della sfera di cristallo, zoom out e sfera che si infrange. Successivamente Allen, destrutturando il sogno di Mort omaggia un’altra scena di Quarto Potere: quella in cui grazie ad un uso senza precedenti della profondità di campo si vede il piccolo Kane che gioca fuori con la neve. Se Orson Welles partiva dal dettaglio del bambino, per poi andare indietro con un piano sequenza che diventava long take, Woody Allen nell’omaggiare questa scena utilizza la profondità di campo ma non fa muovere la macchina, che resta ferma su cavalletto in long take.

Il secondo film è omaggiato attraverso una desaturazione graduale del colore e l’innesto, come suono extradiegetico della colonna sonora di Nino Rota ed è 8 e mezzo di Federico Fellini.

8 e mezzo è il film che Allen ha sempre omaggiato, basti pensare che il suo “Stardust Memories” è praticamente identico, al capolavoro felliniano. In questa scena Mort si confronta con i fantasmi della sua mente: vecchie professoresse, i primi amori, un rabbino, fino ai suoi genitori. Se nel film di Fellini il dialogo con i genitori era tenuto su toni cupi, in questa scena l’unico consiglio che viene dato a Mort da suo padre è “Il denaro parla, la merda cammina”. Per questa sequenza Allen muove la macchina da presa allo stesso modo del film che cita: tutti i personaggi sono inquadrati attraverso una panoramica che è in realtà una soggettiva dello stesso Mort ed è per questo motivo che guardano tutti in camera.

Un altro capolavoro del cinema Europeo che viene omaggiato, questa volta appartiene alla stagione della Nouvelle Vague ed è “Jules e Jim” di Francois Truffaut.

In questa scena Mort pensa al triangolo amoroso che si sta instaurando tra lui, Philippe e sua moglie Sue, proprio come nel capolavoro di Truffaut. La citazione è resa più esplicita dal costume di Gina Gershon identico a quello di Jeanne Moreau nel film francese.

Come se non bastasse, Allen decide di omaggiare un altro capolavoro della Nouvelle Vague: Fino all’ultimo respiro. Il primo film di Jean Luc Godard viene prima mostrato come proiezione diegetica al cinema, successivamente Mort entra nel film e dialoga sul letto con la moglie Sue, proprio come fa Jean-Paul Belmondo con Jean Seberg.

Per questa sequenza Allen utilizza la macchina a mano, proprio come nei film della nouvelle vague, nei dialoghi non ci sono campo/controcampo ma il punto di vista della macchina da presa si muove in base al personaggio che sta prendendo parola; il tutto è supportato da un montaggio sincopato (Jump cut), un taglio netto sulla pellicola. Nel film si ha questo stacco di montaggio quando Sue esprime il suo desiderio di voler avere un rapporto sessuale con Ryan Gosling e Tom Hardy.

Spostandoci in Svezia, il prossimo maestro indiscusso della settima arte, che Allen va a menzionare è Ingmar Bergman. Se avete visto “Harry a pezzi” non avete potuto fare a meno di notare le analogie con “Il posto delle fragole” di Bergman, il cineasta svedese è infatti, uno dei principali punti di riferimento di Woody e, in un film che celebra il cinema non potevano mancare i riferimenti alle sue opere più celebri.

In questa sequenza oltre alla citazione visiva del capolavoro di Bergman, Mort discute anche sul cinema Orientale del maestro nipponico Kurosawa, consigliando “Kagemusha”.

Questa inquadratura ricorre spesso nel cinema di Woody Allen a partire dalla sua commedia Slapstick “amore e guerra” ed è un omaggio palesissimo alla composizione spaziale e dell’immagine che propone Bergman in “Persona”.

Dalla Svezia si resta ancora in Europa e si arriva in Spagna, con un chiaro riferimento a “L’angelo Sterminatore” di Luis Bunuel. I fan più attenti avranno notato che non è la prima che Allen cita questo film, lo ha già fatto in “Midnight in Paris”, quando Owen Wilson si ritrova a parlare con Bunuel stesso. La seconda citazione al film del cineasta spagnolo è invece in Anything Else e la potete ascoltare solo come commento di una coppia che di sfuggita esce dal cinema, con la ragazza che dice al fidanzato “io ancora non ho capito perché non potevano uscire dalla stanza”.

Questo è l’ultimo incubo di Mort, che resta bloccato nella stanza, proprio come i borghesi della pellicola di Bunuel. Circondato da persone che non stima e che odia velatamente l’unico modo che ha per uscire da quel salone è svegliarsi.

Ultima, ma non meno importante è la citazione alla partita di scacchi per eccellenza nella storia del cinema: quella tra il cavaliere Antonius e la Morte ne “il settimo sigillo” sempre di Bergman.

Il film si chiude con questo bellissimo omaggio ancora a Bergman. Questa volta la transizione non è data da un sogno ma, attraverso una panoramica e un cambio di formato nella realtà. Mort infatti è più lucido che mai e si ritrova a flirtare con la Morte (Christoph Waltz) che non è qui per portarlo via ma per dargli consigli: niente fumo, camminare tutti i giorni, tanta frutta e verdura e… occhio alla colonscopia.

Non è cosi difficile immaginare che sia Allen stesso a parlare con la morte. Il cineasta newyorkese è infatti in una fase artistica e anagrafica in cui si tirano le somme e si fa un resocongo del proprio percorso. Questo è rifkin’s festival, un’opera testamento? una lettera visuale di amore per la settima arte? Poco importa. Ogni volta che Woody Allen fa un film, il cinema è un posto migliore e di questo non possiamo che ringraziarlo.

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