
È oramai tradizione che sui social galoppino rumors riguardo reboot di questa o quella serie tanto amata dal pubblico negli anni 2000, quando vediamo le foto delle supposte reunion del cast con i produttori, o dei nuovi volti che dovrebbero interpretare i figli, nipoti, fratelli minori dei nostri beniamini, scrolliamo. Come con Friends però, anche con Gossip Girl stavolta ci tocca crederci.
Un paio di settimane fa sono arrivate addirittura delle delucidazioni sulla trama e sui protagonisti del progetto, in uscita a luglio su HBO Max.
I fan sono già pronti; gli aggiornamenti vengono caricati sulla pagina Instagram di GG, nuovo veicolo per le informazioni al posto dello storico blog, che sembra verrà utilizzata un po’ come era stato deciso per il primo SKAM (ed. Norvegia), dove ai personaggi veniva dato statuto reale con tanto di post e storie in cui agivano come adolescenti odierni.
Nel frattempo, Netflix si prende la sua parte e riapre le porte all’amata serie, concedendoci un confortevole rewatch. La sua particolarità è, su tutte, a mio avviso, proprio quella di non tenerci incollati allo schermo in maniera malsana, con la smania di vedere come va a finire; sappiamo che ci sono ben 121 episodi, 6 stagioni, innumerevoli scambi di coppia e di abito e l’identità misteriosa a cui appartiene la voce narrante. Ma in un certo senso, non ci interessa. Preferiamo crescere con i personaggi, prenderci un momento per ammirarne gli abiti, sognare.

Ecco, Gossip Girl è per chi ha voglia di sognare; non perché glorifichi l’alta società- questa è una prima impressione, dovuta alle tonnellate di soldi di cui ognuno sembra disporre, bensì per la sua dose di irrealtà. O meglio, pseudorealismo.
I personaggi
Rivedendo la serie dopo una decina d’anni (l’ultima stagione è del 2012 ed io ricordo di averla guardata sperando di trovare, al liceo, il mio Dan Humphrey), ho potuto comprendere meglio la caratterizzazione dei vari ruoli, non perfetta ma esaustiva; a colpirmi di più, Blair. La bravissima Leighton Meester è riuscita a dare vita ad un personaggio assolutamente insopportabile.

Almeno per le prime stagioni, il suo dettato oscilla tra i poli dell’ingenuità e della fedeltà all’amica Serena e ai valori dell’amore, impegno e amicizia e quello del doppiogiochismo più banale, capace di costruire sotterfugi degni dei bulletti delle scuole medie. Improvvisamente la ritroviamo poi matura e con una personalità di spessore quando ormai non ce lo aspettavamo più, rapiti come eravamo dalla storia d’amore con Chuck, che troppo ha impegnato il suo personaggio.
Non dobbiamo aspettarci grande coerenza dallo sviluppo delle relazioni; pur essendo basata sulla serie di romanzi Gossip Girl, di Cecily von Ziegesar, la storia spesso prende derive da cui sembra difficile tornare sulla strada maestra, ad esempio al fine di ricostruire la vicenda dell’omonimo blog, al quale accedono persone diverse, ma fin dall’inizio sembra difficile ricondurre ad un membro del cast principale (eppure).
Persino il ruolo di antagonista è interscambiabile; difficile dire, in fin dei conti, se Dan possa essere considerato tale o se invece a rinnovare l’azione siano stati di volta in volta il corollario di personaggi minori come Georgina Sparks, Carter Baizen, Diana Payne, Juliet Sharp o Bart Bass.
Spesso questi tendono ad assomigliarsi; la loro entrata è trionfale, intessono relazioni intime con il gruppo, ma appaiono subito costruite su inganno e menzogna. E Gossip Girl non è Pretty Little Liars; ha, in fondo, un alto tasso di moralità.
Il conflitto di classe
Dan, o Lonely boy, membro del cast principale e di fatto coprotagonista ha un rapporto conflittuale con il resto del gruppo, a causa della differenza dei loro stili di vita; lui, ragazzo introverso, con un padre ex musicista di Brooklyn che ha investito tutto nell’istruzione dei figli, loro, giovani viziati delle famiglie più ricche di Manhattan. Spesso questi ultimi vengono favoriti, dalla scelta del college, al lasciapassare in caso di piccoli reati, per non parlare delle comodità a cui sono abituati, a cui il giovane è totalmente estraneo.

È interessante notare come questi, a differenza della sorella minore Jenny, presentata nella prima stagione come “dama di compagnia”, innocente e sognatrice, ma non per questo meno intelligente del fratello, fin da subito assuma un comportamento estremamente consapevole delle differenze sociali e per queste si batta. Serena, Blair, Nate e persino Chuck, variano nel corso delle stagioni il loro statuto finanziario, arrivando talvolta ad una maturazione inaspettata, non esente da critica sociale nei confronti dei meccanismi che regolano i rapporti nel loro entourage.
Il setting
In primo luogo, gli abiti. Oltre a presentarci feste e brunch in cui ognuno è impeccabile, con tanto di stilisti citati a rapporto in stile Il diavolo veste Prada e Sex and the City, anche quando Blair studia, non ha nulla fuori posto. L’operazione messa in campo è opposta al senso comune; vediamo gli attori “al naturale”, con i capelli sfatti o con abiti dimessi, soltanto quando questo è fortemente funzionale alla narrazione; dopo una serata finita male, una fuga o un qualsiasi dramma (ce ne sono in ogni puntata, ma il più delle volte le conseguenze vengono ignorate pochi episodi dopo).

Un’altra grande alleata per la costruzione delle atmosfere frizzanti dell’Upper East Side, è la musica; ora ci appare fortemente legata al proprio decennio, seconda metà degli anni 2000, ma all’epoca si servirono dei pezzi più in voga, permettendoci di sentirci vicini alle esperienze dei personaggi. Le nostre feste parallele alle loro, tutti a ballare la stessa canzone, non importa se a migliaia di km di distanza.
Unica pecca, molti pezzi sono presi pari pari dalla selezione fatta per la colonna sonora di The O.C.
23 anni, studio Italianistica. Ho visto Mean Girls 27 volte.