
Il 18 novembre viene distribuito anche in Italia, sulla piattaforma Prime video, l’ultimo film di David Lowery The Green Knight, il tanto atteso fantasy di tradizione tardo medievale. E la A24 continua a non sbagliare.
Lowery riprende uno dei racconti più suggestivi del ciclo arturiano, il romanzo cavalleresco di Galvano e il Cavaliere Verde, risalente al tardo medioevo. In confronto alle precedenti versioni del 1973 e del 1984, il regista costruisce l’adattamento più fedele del celebre racconto pur concedendosi delle libertà, seguendo il flusso delle alterazioni attraverso il quale è stata tramandata la leggenda e mantenendone il forte carattere allegorico.
La narrazione prende le mosse da un assunto, ovvero l’importanza delle storie, il ruolo fondamentale del racconto nel conoscere l’altro e se stessi: i rapporti interpersonali sono mediati indissolubilmente da storie che raccontiamo per ricordare noi stessi e come lo siamo diventati, per rielaborare la propria storia e offrirla a chiunque sia interessato ad ascoltarla.
Il Gawain di Dev Patel non ha alcuna storia da raccontare né, di conseguenza, sa come raccontare se stesso: è da questa mancanza che inizia il suo viaggio e The Green Knight si rivela un racconto di formazione sotto mentite spoglie che, partendo dalla tradizione medievale, arriva fino alla nostra contemporaneità.
Narra la crescita e la formazione di un uomo, attraverso un’epopea in cui Gawain viene messo ripetutamente alla prova dalla ricerca delle virtù tanto lodate a corte e fallisce nel dimostrarsi alla loro altezza. Si afferma e si scopre uomo nello scontro con le proprie inadeguatezze e con le contraddizioni dei valori cavallereschi (riscoperte nel momento in cui Lowery torna a parlare del fluire del tempo, come aveva già fatto con A Ghost Story).

Il racconto procede in un mondo dominato da una natura allucinata e impazzita, dove Il verde è ciò che riempirà le impronte lasciate da Gawain sull’asfalto, è ciò che ricoprirà la sua tomba e tutto quel che gli è caro infine gli si arrenderà. Il verde è quello che rimane. Tra gli esempi più recenti, ricorda Gretel e Hansel di Oz Perkins, nell’ottica di un vecchio racconto che viene rivisitato e deformato secondo una lente onirica, in cui la narrazione rimane sospesa in una dimensione quasi metafisica, fatta di paesaggi impossibili che, filtrati da luci antinaturalistiche, si rivelano dei non-luoghi.
Lowery si mantiene radicale nell’estetica, elevata dall’eccezionale fotografia di Andrew Poz Palermo, immergendo la narrazione in un atmosfera sospesa e incantata, suggestiva e inquietante. L’imponenza del lato estetico, l’aspetto di maggior pregio, rischia tuttavia di scavalcare la sostanza del film, che viene espressa in due sequenze fondamentali e nelle sue ambizioni non si apre magari ad una grande innovazione rispetto ai contenuti già espressi nell’opera di riferimento. Ciononostante, prosegue sulle ambiguità del racconto innalzandolo nella forma e traslandone gli interrogativi nell’attualità, senza abbandonarsi ad un mero esercizio di stile.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.