
Arriva nelle sale italiane il film shock del 74° Festival di Cannes, il film che ha tanto diviso e scandalizzato, nonché il vincitore della palma d’oro. La regista è Julia Ducournau, che già si fece notare nel 2016 con il suo primo film, l’ottimo Raw, e già al suo secondo lavoro viene insignita di uno dei più importanti premi in ambito cinematografico. Questa edizione di Cannes si è quindi aperta ad una vera e propria scommessa, riconoscendo delle responsabilità importanti che non dovranno essere disattese.
In particolare, se già in Raw la regista aveva espresso un preciso approccio al genere, qui torna ad affermarlo in maniera più radicale: Titane richiama a gran voce nomi illustri, partendo da questi per elaborare un linguaggio orrorifico nuovo, allucinato, barocco e antitetico ad un cinema fatto di compromessi e buon gusto.
In Titane emerge il David Cronenberg degli inizi, nel riproporre un orrore che contamina la carne, ma anche quello del più recente Crash, indagandone il rapporto con il metallo e la ferita, per poi passare da Christine – la macchina infernale di Carpenter e toccare la poetica di Shin’ya Tsukamoto, riprendendone le opere più folli (su tutte Tetsuo e Vital) in cui l’incidente e l’intrusione del metallo nel corpo, fino alla mutazione, costituiscono l’evento catalizzatore della vicenda.
Infine, di fronte ad una violenza barbarica, raccontata attraverso un’estetica che familiarizza con il cyber-punk, Julia Ducournau si appropria della lezione di Leos Carax sul gesto, trovando dei punti di contatto con l’estetismo di Refn: la bellezza è nel gesto o negli occhi di chi guarda? E se non c’è nessuno a guardare, cosa rimane del gesto?

Agathe Rousselle, qui alla sua prima prova attoriale, interpreta una ragazza afasica che lavora come ballerina di notte nei motor show e, sempre di notte, massacra meccanicamente le proprie vittime, senza interesse e simile ad un automa. Il titanio del titolo si riferisce al materiale della protesi impiantatale nel cranio, risultato di un incidente in auto che l’ha vista coinvolta da bambina: in seguito a quell’episodio, le si sovrascrive un nuovo modello di essere umano che si afferma nella violenza e cerca la propria umanità in un tremendo e allucinante legame con il metallo che soppianta il rapporto con la carne.
La narrazione si lancia poi nel delirio, quando l’impossibilità di provare tensione emozionale ed erotica nei confronti di un corpo vivo si traduce in un amplesso con una Cadillac (in una sequenza che non manca di ricordare il momento shock di The Counselor, scritto da Cormac McCarthy e diretto da Ridley Scott), con conseguente gravidanza.

Il corpo che produceva unicamente morte rimane traumatizzato dalla possibilità di creare anche la vita, mentre il film contrappone elementi contrari, come l’olio motore e gli umori corporei, fino all’orrore e la tenerezza, Agathe Rousselle e l’altro protagonista, Vincent Lindon (la nuova esperienza cinematografica e la tradizione), fondendo due corpi portati al limite, entrambi guastati dalla miseria e alla scoperta della propria umanità, fino alla sintesi di una nuova.
L’orrore rimane una costante nel percorso di riscoperta di se stessi e dell’altro, mentre il proprio fisico massacrato è l’unico punto di riferimento per questi animali impauriti e disorientati. La mente si trasforma nel tentativo disperato di stare al passo con il corpo, stravolto da una mutazione inarrestabile, e trovando come unico sfogo il martirio dello stesso.
Pur con l’importante limite di vivere dello stesso schema narrativo di Raw, qui arricchito nella forma estetica e registica, Titane procede con i toni di una favola nera e delirante, un mito sul rapporto grottesco e febbrile tra carne e metallo che, mentre Nanni Moretti (anche lui in concorso con Tre piani) si dice «invecchiato di colpo quando vince un film in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac», non tradisce la tradizione ma la comprende e la assimila, con l’obiettivo di sintetizzare una nuova dialettica cinematografica.
Chiaramente non ci riesce fino in fondo e una simile ambizione è sicuramente eccessiva, se considerata in relazione ad una carriera registica così giovane e che non può aprirsi realmente a riflessioni su un ipotetico percorso autoriale, ancora poco radicato nell’esperienza personale della regista e troppo riferito a quelle di altre personalità. La rievocazione di vari maestri della tradizione cinematografica di genere e non, per quanto possa arricchire la visione espressa da un regista, non ne implica necessariamente la piena riuscita: con la sua opera prima, Julia Ducournau aveva probabilmente partorito una pellicola più quadrata, in cui le varie influenze si amalgamavano meglio in una narrazione più organica, mentre in questo caso, sia le intenzioni che i richiami culturali sono troppo dichiarati, perfino ingombranti, con il rischio che la pellicola possa essere ridotta ad essi.
Titane rappresenta comunque un caso curioso nella produzione cinematografica dell’anno in corso, lasciando stimoli e la sensazione di aver visto qualcosa di nuovo e atipico, che parla del cinema del passato e della necessaria evoluzione del linguaggio, più cattivo e allo stesso tempo rispettoso.
Scrivo a vanvera di film che non capisco.