Triangle of sadness: la divertente fine della civiltà occidentale

Il primo dei tre capitoli sembra dover aprire un seguito tematico di Forza maggiore, mettendo in scena una coppia di fidanzati modelli, ma non modello, intenti a discutere le aspettative imposte dai ruoli di genere. La discussione si risolve lasciando lo spazio al secondo capitolo e rivelandosi solo un frangente, focalizzato su un argomento specifico ma funzionale ad intavolare il più generale concetto di uguaglianza, reso fasullo già in apertura. Dei due fidanzati, la ragazza guadagna più del ragazzo, il quale è comunque solito pagare la cena, e si inaugura così un gioco di ribaltamento delle posizioni che prosegue attraverso i tre capitoli, da Carl e Yaya, allo yacht fino all’isola.

Gli unici ad aver capito come funziona questo gioco di ruoli, che può trasformarsi in un gioco di ruolo, sono non a caso il capitano dello yacht e uno dei passeggeri, rispettivamente l’americano comunista e il russo capitalista: il primo beve a non finire per non rimanere sobrio nel mondo in cui vive e il secondo afferma orgogliosamente di vendere “merda”. E ovviamente si incontrano nella tempesta stringendo amicizia su uno yacht da 200 milioni di dollari, in un’accanita battaglia di aforismi sulle rispettive posizioni.

Il film è Triangle of sadness, film che, dopo The Square nel 2017, è valso la seconda Palma d’oro al regista svedese Ruben Östlund in occasione del 75° Festival di Cannes (qui per vedere quali altri film erano in concorso quest’anno).

L’umorismo di Östlund

È facile per una pellicola come Triangle of sadness scadere nel solito teatrino del borghese che critica la borghesia con fare da borghese, ma è proprio l’umorismo impiegato da Östlund, stavolta più di pancia e meno brillante dei film precedenti, a mettere la narrazione in una prospettiva che non lo renda paternalistico o pedante, ma genuinamente divertente e perfino spensierato, seppur compiaciuto: per quanto sgradevoli e macchiettistici possano essere i passeggeri dello yacht, si può provare compassione, quasi simpatia, perché sono persone che esistono nel nostro mondo e caratteri che possiamo riconoscere. Se ne ride ma senza disprezzarli. Quindi Östlund non si pone severamente a distanza, non ostenta mai noia patrizia per i suoi personaggi: non è mai cinico nei loro confronti, solo verso il mondo cui appartengono (e apparteniamo).

La satira stavolta è sottile quanto un’accettata in fronte, il gioco messo in piedi dal regista è più che intelligibile, meno elegante e meno ricercato, ma non per questo grossolano. La cena del capitano vive di Monty Python e de La grande abbuffata di Ferreri, e quando lo yacht affonda non ci sono Rose e Jack che si dicono teneramente addio con il Titanic che viene risucchiato dalle acque, soltanto i passeggeri esanimi nel proprio vomito e water che rigettano a spruzzo le feci. La vita sull’isola procede sulla stessa linea: nei tre capitoli si cambia ogni volta scenario e il gioco di ruoli si adatta costantemente a premesse diverse, perché neanche nella natura le gerarchie si annullano, semplicemente si capovolgono.

Conclusioni

Si sente la disparità di minutaggio dei tre capitoli, ciascuno più lungo del precedente, e il film poteva in tal senso essere snellito, pur non accusando il peso della durata. Un maggior controllo del minutaggio lo avrebbe reso più reattivo nelle fasi finali, visto e considerato che quest’ultimo lavoro di Östlund non è tra i suoi più brillanti o più originali: non vuole né deve esserlo, non ne ha bisogno. Non si carica di pretese o ambizioni leziosamente intellettuali, Triangle of sadness è un film spensierato che vuole divertire e divertirsi, pur rispettando i doveri che conseguono dagli stimoli e dagli argomenti che intavola. Perché se i tre capitoli danno le coordinate del “triangle of sadness”, arrivati alla fine della civiltà occidentale e dei suoi equilibri bisogna solo rilassare la fronte, come nelle sfilate di moda.

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