Venom: la (non pervenuta) furia di Carnage

Assassini Nati fece molto discutere di sé ai tempi della sua distribuzione, nel 1994. Critica e pubblico si schierarono per lo più contro di esso, accusando un Oliver Stone pretenzioso e scaduto nel ridicolo, oltre a recriminargli un’inappropriata spettacolarizzazione della violenza. L’indignazione generale è comunque indicativa dell’impatto del film e del messaggio che veicolava, tanto da esercitare ancora oggi una notevole influenza sulla filmografia di Rob Zombie, per citare un regista tra tanti.

Stone aveva realizzato una pellicola barocca, nell’uso sia della violenza che degli stimoli visivi con cui bombardava lo spettatore, rifacendosi all’estetica dei video musicali di MTV di quegli anni per creatività e sperimentazione: in più di 3000 inquadrature di cui si compone la pellicola, unite secondo un montaggio martellante e psichedelico, si inseguivano sequenze in bianco e nero e filtri cromatici iper-saturi, per poi passare all’animazione, immagini distorte e scene che richiamavano a gran voce le sitcom degli anni Cinquanta.

E in tutto ciò, ponendosi a metà strada tra Arancia Meccanica e Cuore selvaggio, il film raccontava dei mostri cresciuti dalla società e infine plasmati dai mass media, mentre veniva indagato il nostro rapporto con la violenza, mediato – e inevitabilmente spettacolarizzato – dalla narrativa di massa.

Venom: la furia di Carnage prova a fare tutto questo, ma fallisce miseramente sotto ogni prospettiva. A richiamare il cult di Oliver Stone è su tutto l’idea di un’unione diabolica e morbosa (incarnata da più di una coppia di personaggi) su cui si articola il film stesso, oltre all’interpretazione di Woody Arrelson, protagonista insieme a Juliette Lewis proprio di Assassini Nati. Pretende di essere grottesco, ma si censura in favore di un pubblico più giovane: la tanto promessa carneficina, in una qualche misura, è presente, ma la violenza visiva è molto trattenuta, e il turpiloquio (anch’esso molto timido), così come degli antagonisti tendenziosamente crudeli fino al midollo, non basta ad emulare l’irriverenza di prodotti supereroistici più atipici come Deadpool, The Suicide Squad e The Boys.

Non era necessario riproporre a tutti i costi la crudezza che contraddistingue le avventure degli stessi personaggi nella loro dimensione fumettistica, né tantomeno c’era da aspettarsi un cambio di direzione rispetto al primo capitolo, con il quale la produzione aveva già individuato un pubblico di riferimento. L’errore risiede piuttosto nell’inutile pretesa di essere estremo e nell’incapacità di prendere una posizione fino in fondo.

Viene poi adottato il linguaggio del buddy movie nelle sezioni deputate all’approfondimento del rapporto tra Eddie Brock e Venom, dipingendo delle vere e proprie dinamiche di coppia che anziché definire il mondo dei simbionti, dando potenzialmente un senso alle azioni e reazioni che portano avanti la trama, si appoggiano insistentemente ad una comicità dozzinale che strappa solo un paio di sorrisi per sfinimento.

Il maggior pregio di questo secondo capitolo dell’avventura cinematografica di Venom è, non ironicamente, il minutaggio ridotto, insieme alla scarsa pretesa di seriosità, entrambe caratteristiche che si contrappongono alla tendenza imperante nel panorama attuale dei cinecomic. La breve durata del film è però al tempo stesso la madre di tutti i problemi, dal momento che non consente lo sviluppo di alcuna intuizione, così come della sceneggiatura stessa: ha un inizio e una conclusione, ma è completamente assente lo sviluppo centrale, tanto che risulta difficile individuare un’ipotetica trama in cui gli eventi siano logicamente connessi.

Ne è una conseguenza inevitabile la quasi totale mancanza del viaggio dell’eroe, un arco narrativo al termine del quale il protagonista possa acquisire una maggiore consapevolezza di sé e del proprio ruolo. Così come i personaggi secondari, Venom non guadagna né carisma né maturità, confermandosi una fastidiosa macchietta comica attorno alla quale gravita disgraziatamente l’intera trama, e, superata la scena post-credit, rimane solo molto scetticismo riguardo il suo futuro.

L’unico timido miglioramento si può osservare nella CGI che, se non altro, risulta più espressiva rispetto al tentativo del 2018 e contrasta meno con l’ambiente circostante, probabilmente per merito della gestione dell’illuminazione che, se da un lato maschera le inadeguatezze della computer grafica (imperdonabili per l’epoca), dall’altro è colpevole, insieme al montaggio, della confusione della regia. In ogni caso, non è un film che valorizza la visione in sala, né la visione in sala valorizza questo film.

Venom: la furia di Carnage non fa altro che confermare ed esasperare i limiti della pellicola precedente, risultando in un passo indietro su tutta la linea, complice inaspettatamente anche il passaggio della regia da Ruben Fleischer ad Andy Serkis. È un film che rimane ottusamente incastrato tra il tentativo di adeguarsi ad un pubblico di famiglie e la pretesa di rivelarsi un cinecomic violento e al limite del grottesco, senza riuscire a definirsi una propria identità e cadendo rovinosamente nel ridicolo. Ricorda nella sua mediocrità i peggiori cinecomic dei primi anni Duemila, ad esempio I Fantastici 4 di Tim Story e Daredevil di Mark Steven Johnson e, in questo senso, può almeno suscitare una nostalgica simpatia.

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